"La dificultad no debe ser un motivo para desistir sino un estímulo para continuar"

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Todo Modo - Leonardo Sciascia - Libro in italiano

Leonardo Sciascia TODO MODO - 1 - GLI ADELPHI 221 Nel 1987, in una lunga intervista rilasciata allo studioso francese James Dauphiné, Sciascia, dopo aver proclamato la sua estraneità alla cosiddetta letteratura impegnata - ormai sinonimo di letteratura politica o di partito -, aggiunge: «Il fatto di cercare e dire la verità rinvia, più che a una tradizione umanista, a una tradizione del secolo dei lumi. Voltaire è stato davvero il padre di questo atteggiamento, ripreso più tardi da Zola ... Il pericolo è stato di ricondurre abusivamente quest’atteggiamento a una posizione partigiana e politica. Voltaire e Zola, dunque, ma non Sartre. Come Voltaire e Zola, dunque, è un mio dovere parlare, dire ciò di cui sono convinto. In nessun caso sono però uno scrittore impegnato, partigiano, in nessun caso sono un maestro di pensiero». Todo modo apparve per la prima volta nel 1974. Tutte le opere di Leonardo Sciascia (1921- 1989) sono in corso di pubblicazione presso Adelphi. Leonardo Sciascia TODO MODO - 2 - Leonardo Sciascia Todo modo Leonardo Sciascia TODO MODO - 3 - Poiché invero la causa buona di tutte le cose è insieme esprimibile con molte parole, con poche e anche con nessuna, in quanto di essa non vi è discorso né conoscenza, poiché tutto trascende in modo soprasostanziale, e si manifesta senza veli e veramente a coloro che trapassano tanto le cose impure che quelle pure, e in ascesa vanno oltre tutte le cime più sante, e abbandonano tutti i lumi divini e i suoni e le parole celesti, e si immergono nella caligine, dove veramente sta, come dice la Scrittura, colui che è sopra tutte le cose… E diciamo che questa causa non è né anima né mente; che essa non ha immaginazione né opinione né ragione né pensiero; non si può esprimere né pensare. Non è numero né ordine né grandezza piccolezza uguaglianza disuguaglianza somiglianza dissomiglianza. Non è immobile né in movimento; non è in riposo né ha potenza, e neppure è potenza o luce. Non vive e non ha vita: non è sostanza né evo né tempo; di lei non vi è apprendimento intellettuale. Non è scienza e non è verità, né potestà regale né sapienza; non è uno, non è divinità o bontà, non è spirito, secondo la nostra nozione di spirito. Non è filiazione né paternità né alcun’altra cosa di ciò che è noto a noi o a qualsiasi altro essere. Non è niente di ciò che appartiene al non-essere e neanche di ciò che appartiene all’essere; né gli esseri la conoscono, com’è in sé, così come essa non conosce gli esseri in quanto esseri. Di lei non si dà concetto né nome né conoscenza; non è tenebra e non è luce, non è errore e non è verità… DIONIGI AREOPAGITA, De mystica theologia Lasciò cadere l’ultimo velo del pudore, citando San Clemente d’Alessandria. CASANOVA, Storia della mia vita Leonardo Sciascia TODO MODO - 4 - «A somiglianza di una celebre definizione che fa dell’universo kantiano una catena di causalità sospesa a un atto di libertà, si potrebbe» dice il maggior critico italiano dei nostri anni «riassumere l’universo pirandelliano come sin diuturno servaggio in un mondo senza musica, sospeso ad una infinita possibilità musicale: all’intatta e appagata musica dell’uomo solo». Credevo di aver ripercorso, à rebours, tutta una catena di causalità; e di essere riapprodato, uomo solo, all’infinita possibilità musicale di certi momenti dell’infanzia, dell’adolescenza: quando nell’estate, in campagna, lungamente mi appartavo in un lungo, che mi fingevo remoto e inaccessibile, di alberi d’acqua; e tutta la vita, il breve passato e il lunghissimo avvenire, musicalmente si fondevano, e infinitamente, alla libertà del presente. E per tante ragioni, non ultima quella di esser nato e per anni vissuto in luoghi pirandelliani, tra personaggi pirandelliani, con traumi pirandelliani (al punto che tra le pagine dello scrittore e la vita che avevo vissuta fin oltre la giovinezza non c‘era più scarto, e nella memoria e nei sentimenti); per tante ragioni, dunqne, rivolgevo nella mente, sempre più precisa (tanto che la trascrivo ora senza controllare), la frase del critico: appunto come frase o tema dell’infinita possibilità musicale di cui disponevo. O, almeno, di cui mi illudevo di disporre. Per dirla più semplicemente: non avevo impegni di lavoro o sentimento; avevo quel tanto, poco o molto (ma fingevo fosse poco), che mi consentiva di soddisfare ogni bisogno o capriccio; non avevo né un programma né nna meta (se non quelle, fortuite, delle ore dei pasti e del sonno); ed ero solo. Nessuna inquietudine, nessuna apprensione. Tranne quelle, oscure e irreprimibili, che ho sempre avute, del vivere e per il vivere; e vi si innestavano e diramavano l’inquietudine e l’apprensione per l’atto di libertà che dovevo pur fare: ma leggere e leggermente stordite, come mi trovassi dentro un giuoco di specchi, non ossessivo ma luminuso e quieto come l’ora e i luoghi che percorrevo, pronto a ripetere, a moltiplicare, quando sarebbe scattato, quando avrei voluto farlo scattare, il mio atto di libertà. Andavo in automobile. E questo mezzo, che di solito detestavo e di cui pochissimo mi servivo, era entrato a far parte della mia libertà, al mumento che avevo deciso di esser libero. La guidavo non velocemente, con una calma che rendeva innocue le distrazioui in cui frequentemente cadevo. E appunto la moderata velocità, e il quieto piacere di guardare intorno mentre guidavo, mi diede modo di cogliere, ad una svolta, la scritta Eremo di Zafer 3, nera su giallo: a cui subito abboccò, come ad un amo, quella mia inquietudine, quella mia apprensione. Fermai l’automobile e poi la feci lentamente scivolare indietro, fino ad aver di fronte la tabella gialla e nera. Eremo di Leonardo Sciascia TODO MODO - 5 - Zafer 3. La parola eremo, il nome Zafer, il numero 3: cose ugualmente e diversamente suggestive, per me; e vi si aggiungeva la suggestione che erano tre, il tre che si ripeteva: e anche nel fatto che proprio da tre giorni liberamente vagavo (ché, lo confesso, sono affetto da una piccola ma tenace, non so come formatasi e stabilitasi, nevrosi da trinità). L’eremo è luogo di solitudine; e non di quella solitudine oggettiva, di natura, che meglio si scopre e più si apprezza quando si è in compagnia: un bel posto solitario, come si suol dire; ma di quella solitudine che ne ha specchiato altra umana e si è intrisa di sentimento, di meditazione, magari di follia. E in quanto a Zafer: un santone musulmano o cristiano? Ed era a tre chilometri: soltanto, esattamente e giustamente. Feci la breve manovra per entrare nella stradetta asfaltata (e l’asfalto avrebbe dovuto mettermi in guardia) e mi avventai alla salita. Querce da sughero e castagni facevano galleria, l’aria profumava di tardive ginestre. E improvvisamente un vastissimo spiazzo anch’esso asfaltato, un lato chiuso da un casermone di cemento orridamente bucato da finestre strette e oblunghe. Mi fermai, deluso e arrabbiato; poiché non si vedeva che la strada potesse continuare, e dunque l’eremo era ormai quella mostruosa costruzione. Un albergo, con tutta probabilità. E stetti per un po’ indeciso: se tornarmene indietro senza scendere dall’automobile o se scendere per guardarmi intorno e domandare chi avesse piantato lì quel casermone, e perché. Vinse la curiosità; e anche il gusto di rivalermi della delusione dicendo a qualcuno, ché dentro qualcuno doveva pur esserci anche se sembrava inabitato e tutto era assolutamente silenzioso, l’indignazioue che provavo a trovare invece di un eremo un albergo. Scesi dall’automobile e la chiusi a chiave, ché il silenzio aveva un che di misterioso e di sinistro. La porta centrale dell’edificio, grande, a vetri, era aperta. Entrai e mi trovai, per come avevo previsto, nell’atrio di un albergo. Al banco del portiere, il casellario irto di chiavi dietro, c’era un prete. Giovane, bruno, zazzeruto. Stava leggendo «Linus». Vedendomi entrare, l’occhio gli si spense di noia. Rispose al mio saluto senza voce, muovendo le labbra. «Mi scusi: questo è un eremo o un albergo?» domandai con una certa violenza e ironia. «È un eremo ed è un albergo». «L’eremo di Zafer?». «L’eremo di Zafer, appunto». «E l’albergo?». «L’albergo che?». Molto seccato. «L’albergo che nome ha?». «Di Zafer». E distaccando le parole, ché me le piantassi nella memoria «hotel di Zafer». «Eremo di Zafer, hotel di Zafer. Bene. E chi era, Zafer?». Leonardo Sciascia TODO MODO - 6 - «Un eremita, naturalmente: se questo era un eremo». «Era» sottolineai. «È». «L’ha detto lei: era... Comunque: un eremira musulmano? ». «Ma che musulmano: crede che avremmo continuato a onorare un musulmano?». «E perché no? L’ecumenismo…». «L’ecumenismo non c’entra... Era stato musulmano, poi si convertì alla vera fede». «La vera fede: ma questa è una espressione musulmana». Volevo continuare a seccarlo. «Sarà» disse il prete: e tornò a gettar l’occhio su «Linus», a farmi capire the stavo annoiandolo e disturbandolo. «Se non la distorbo» calcando per dire che apponto volevo disturbarlo «desidererei sapere qualcosa su Zafer, sull’eremo... E sull’albergo». «Lei è un giornalista?». «No. Perché?». «Se è un giornalista, perde il suo tempo: lo scandalo c’è già stato». «Che scandalo?». «Per l’albergo: che non si doveva fare, che è brutto... C’è già stato: tre anni fa». «Non sono un giornalista. E mi piacerebbe sapere qualcosa anche dello scandalo». «Perché?». «Non ho niente da fare. E neanche lei, vedo». Gettò su «Linus» uno sguardo ormai senza speranza. «Veramente» disse «qualcosa da fare l’avrei». «Che cosa?» domandai: con impertinenza, con provocazione. «Oh...» disse, facendo con la mano un gesto che comprendeva le tante cose che aveva da fare, la grande confusione in cui si sarebbe dovuto immergere chi sa per quanto tempo e con quanta fatica: e perciò, intanto, a tenersi fresco per la prova, leggeva «Linus». Glielo dissi. Se ne sentì punto, ma divenne più affabile. «Che rosa vuole che le dica? Dello scandalo, cioè di come le cose sono state presentate da certi giornali e da certi uomini politici, so poco... Che c’è stato: e basta... C’era un eremo: una casa diroccata, una chiesetta mal tenuta; e don Gaetano, tre anni fa, ha tirato su quest’albergo... La Repubblica tutela il paesaggio, lo so; ma poiché don Gaetano tutela la Repubblica... Insomma: la solita storia». Sorrise acre. Non si capiva se ce l’aveva con don Gaetano o con la Repubblica. «E chi è, don Gaetano?». Leonardo Sciascia TODO MODO - 7 - «Non sa chi è don Gaetaoo?». Tra meravigliato ed incredulo. «Non lo so. Dovrei saperlo?». «Direi di sì». Cominciava a divertirsi. «E perché?». «Ma per le cose che ha fatto, per le cose che fa…». «Ha fatto questo albergo: sono tutte di quest’ordine le cose che fa?». «Quest’albergo l’ha fatto, per così dire, con la mano sinistra». «E con la destra?». «Scuole: a diecine, forse a centinaia. Dovunque. Di ogni grado. Persino un’università». «Centinaia di scuole e un albergo». «Tre alberghi». «Ah, tre alberghi. E sempre distruggendo eremi?». «Gli eremi non li distrugge: li ingloba. Qui, l’eremo di Zafer è infatto. È diventato una cripta». «E si può vedere?«. «Sì che si può vedere». Sospirò di stanchezza, aspettandosi che gli chiedessi di vederlo. Non glielo chiesi. «E don Gaetano?» domandai. «Don Gaetano che?». «Si può vedere anche don Gaetano?». «Certo: è qoi. Ci passa tutta l’estate. Tra gli alberghi che ha fatto, questo gli è carissimo». «E perché?». «Non so. Forse è legato al luogo da ricordi d’infanzia. Forse perchè il farlo gli è costata una guerra più lunga... Ma l’ha vinta». «Evidentemente, non poteva che vincerla». «Eh sì, non poteva che vincerla» convenne. Il tono era d’orgoglio, ma con una smorzatura di pudore. Mi girai intorno. «Per essere tranquillo, è tranquillo» dissi. «È anche comodo?». «L’albergo? Comodissimo». «Mi ci fermerei per qualche giorno» dissi. «Non è possibile». «Tutto occupato?». Ironicamente: poiché pareva, ed era, deserto. Leonardo Sciascia TODO MODO - 8 - «In questo momento, compreso il personale di servizio, siamo in ventuno. Ma dopodomani arriva la piena». «I clienti arrivano tutti in una volta?». «Sono clienti particolari». Fece una pausa; poi, come mi confidasse un segreto «Esercizi spirituali». «Oh, esecizi spirituali». Fingendo una meraviglia adeguata alla confidenza che mi elargiva. Ma, per la verità, on po’ meravigliato lo ero. Da anni, da molti anni, non sentivo parlare di esercizi spirituali; e credevo non se ne facessero più. Se ne parlava tanto quando ero bambino, all’arrivo in paese delle missioni paoline: che era, nell’annata, un avvenimento importante quanto l’arrivo della compagnia d’operette Petito-D’Aprile e di quella drammatica D’Origlia-Palmi; e altrettanto puntuale. I paolini facevano prediche per tutti, esercizi spirituali per pochi; e infine piantavano, in qualche punto della periferia, una croce di ferro, a ricordo della missione: e se ne andavano. L’ultima volta che avevo sentito di esercizi spirituali era stato nel dopoguerra: ché avvicinandosi le elezioni, le prime, un padre domenicano era venuto a predicare, talmente entusiasmando gli uomini del ceto insegnante e impiegatizio da tirarseli dietro, in una villa messa a disposizione da un benestante devoto, per tutta una settimana. E il bello fu che ci andarono anche i massoni, tornandone affilati nel corpo e nello spirito quanto quelli che massoni non erano. «Esercizi spirituali» ribadì il prete. «Ogni anno, puntualmente: l’ultima domenica di luglio cominciano i turni». «E quanto dura, un turno?». «Una settimana». «E quauti turni?». «Tre, quattro. Tre fino all’anno scorso, quattro quest’anno». «I fedeli aumentano». «Sì, certo» disse il prete: ma formalmente. Aveva qualche dubbio. E tornando alla confidenza «Ma il Più importante è il primo turno». «Perché?». «Per le persone che vi partecipano». E abbassando la voce e stringendo ancora di più la confidenza «Ministri, deputati, presidenti e direttori di banche, industriali... E tre direttori di giornali, anche». «Davvero importante» dissi. «E mi piacerebbe tanto trnvarmi qui, mentre queste persone fanno gli esercizi spirituali». «Impossibile». «Capisco... Ma oggi e domani, fin tanto che non arriva, come lei dice, la piena: potrei restare, no?». Leonardo Sciascia TODO MODO - 9 - «Teoricamente «E in pratica?». «In pratica, sempre che don Gaetano dica di sì, bisogna che lei si contenti, che si adatti: i servizi difettano; e la cucina, poi…». «E sarei il solo, diciamo così, ospite pagante?». «Non il solo, ce ne sono altri cinque». E tra l’esasperato e il misterioso «Cinque donne». «Vecchie e straniere» dissi. «Ma no: non sono vecchie e non sono straniere». «Ma sole?». Gli passò nello sguardo un lampo di malizia; e come a lavarsene le mani disse «Sono arrivate sole». «Ma lei ha il dubbio che siano davvero sole». «No, no…». Debolmente; e a formale riparazione «Volevo dire: sono arrivate sole ma ora si fanno compagnia». «Io sarei dunque il sesto». «Bisogna sentire don Gaetano». «Sentiamolo». «Non ora. Più tardi, quando sarà l’ora della refezione. Non si può disturbarlo mentre è in raccoglimento: sta nella cappella qui sotto». Puntò l’indice verso il pavimento. «L’eremo di Zafer» dissi. «Precisamente... Intanto, lei può muoversi come vuole: dentro o fuori». Il colloquio era irrimediabilmente finito: avidamente i suoi occhi riapprodarono a «Linus». Andai fuori: oltre lo spiazzale, nel bosco. Man mano che mi alluntanavo dall’albergo, gli alberi diventavano più fitti, l’aria più fresca e odorosa di resine. La solitudine era perfetta. E mi dicevo di tanta perfezione, e della libertà con cui stavo godendomela, quando tra gli alberi intravidi come un lago di sole e dei colori che vi si muovevano. Mi avvicinai cautameute. Nella radura, al sole, c’erano delle donne in bikini. Erano certamente quelle dell’albergo, di cui mi aveva detto il giovane prete. Cinque, infatti. Mi avvicinai ancora, sempre silenziosamente. E stavano in silenzio anche loro: distese sugli asciugamani a spugna dai colori vivaci, quattro; una invece seduta, immersa nella lettura. Era un’apparizione. Qualcosa di mitico e di magico. A immaginarle del tutto nude (e non ci voleva molto), tra l’ombra cupa del bosco in cui io stavo e la chiazza di sole in cui stavano loro, con quei colori, in quell’assorta immobilità, ne veniva un quadro di Delvaux (non mio: chè io non ho mai saputo vedere la donna in mito e in magia, nè pensosa, nè sognante). Era di Delvaux la disposizione, la prospettiva in cui stavano rispetto al mio occhio; e anche quello che Leonardo Sciascia TODO MODO - 10 - non si vedeva e che io sapevo: il fatto che stavano, sole, in quel cieco casermnnc tenuto da preti. Stetti un po’ a spiarle: avevano bei corpi. Quattro erano bionde, una bruna. I grandi occhiali da sole che portavano, mi impedivano di vedere se erano belle; e la distanza anche, nonostante la mia presbiopia. Debbo confessare che vagheggiai l’avventura; e che mi sentii felice, a immaginarmi al centro della loro compagnia, quanto poco prima, e anzi più, sentendomi in perfetta solitudine. Ma mi allontanai, tornando verso l’albergo. Trovai don Gaetano (non poteva essere che lui) appoggiato, da fuori, al banco su cui il prete-portiere leggeva ora, invece di «Linus», un libro rilegato in nero. Alto nella lunga veste nera, immobile; gli occhi di uno sguardo lontano, fissamentesperso; una corona a grossi grani, nera, avvolta nella mano sinistra; la destra grande e quasi diafana sul petto. Sembrava non vedermi, ma mi venne incontro. E sempre come non vedendomi, dandomi la curiosa sensazione, da sfiorare l’allucinazione, che si sdoppiasse visivamente, fisicamente - una figura immobile, fredda, propriamente discostante, che mi respingeva al di là dell’orizzonte del suo sguardo; altra piena di paterna benevolenza, accogliente, fervida, premurosa - mi diede il benvenuto all’Eremo di Zafer. Che non era più, o non era soltanto, un eremo, ma un albergo: senz’altro brutto, lo riconosceva; ma che si può fare mai con questi architetti, oggi?... Presuntuosi, fanatici, inaccostabili... Meglio, oh quanto meglio, i capimastri di una volta... Della bruttezza, comunque, non aveva colpa; della comodità, un po’ di merito... Gli architetti! Le due grandi imposture del nostro tempo: l’architettura e la sociologia. E stava per accompagnarvisi la medicina, ormai al livello della più ignobile stregoneria... E come preso da improvvisa preoccupazione «Spero che lei non sia né architetto nè sociologo né medico». «Sono un pittore» dissi. «Un pittore... Già, mi pare di riconoscerla... Aspetti, non mi dica il suo nome... In televisione, circa tre mesi fa: facevano vedere come nasce un quadro, un suo quadro... Francamente, poteva farsi vedere a dipingere un quadro più bello... Ma l’ha fatto apposta, immagino: come nasce un brutto quadro per un brutto mondo, un quadro senza intelligenza per quei milioni di esseri senza intelligenza che stanno davanti a un televisore». «C’era anche lei, davanti a un televisore» dissi un po’ irritato. «È un complimento, ma forse non ne sono degno: guardo troppo spesso la televisione, perché possa dirmi completamente immune della lebbra dell’imbecillità... Troppo spesso: e finirò, se già non ci sono finito, col contagiarmene... Perché, me ne confesso, la contemplazione dell’imbecillità è il mio vizio, il mio peccato... Proprio: Leonardo Sciascia TODO MODO - 11 - la contemplaziune... Giulio Cesare Vanini, che è stato bruciato come eretico, riconosceva la grandezza di Dio contemplando una zolla; altri contemplando il firmamento. Io la riconosco dall’imbecille. Non c’è niente di più profondo, di più abissale, di più vertiginoso, di più inattingibile... Solo the non bisogna contemplare troppo... Ecco, ci sono arrivato: lei 腻 e disse il mio nome. «La meccanica per cui è arrivato a ricordarsi del mio nome, debbo dire che non mi lusinga» dissi scherzoso ma con una punta di risentimento. «Oh no: mentre dicevo dell’imbecillità, una parte della mia mente ruotava a cercare il suo nome, a ingranarlo... È una macchinetta a parte, la memoria: la mia, almeno... Dunque, lei vuole restare qui per oggi e per domani. Sarà un onore per noi, ma credo non sarà un piacere per lei. Comunque: tutto l’albergo, tranne le poche camere che sono già occupate, è a sua disposizione». «Ma mi piacerebbe restarci oltre domani: ho saputo che si terranno esercizi spirituali». «Vuol farli anche lei?». «Diciamo che vorrei esercitare la mia spiritualità facendo da spettatore agli esercizi spirituali degli altri». «Pura curiosità, insomma». «Lo ammetto». «O peggio: il gusto di cogliere altri in pratiche che lei, forse, ritiene non degne degli uomini; di deriderli...». «Forse». «Beh, non si puù mai dire». «Che cosa?». «Niente: lei ha sentito degli esercizi spirituali, e le è venuto il desiderio di assistervi... E crede che questo impulso le venga dalla voglia di divertirsi, di deridere... Ma non si sa mai, quello che può nascere da un simile impulso: un atto di libertà…». «…a cui poi si saldano gli anelli della causalità». Mi guardò, per la prima volta, con un certo interesse. «Già» disse «la catena». S’inchinò leggermente. E scomparve. Scesi dalla camera quando sentii, nel corridoio, prolungatamente trillare un campanello, come nelle stazioni quando si annuncia l’arrivo di un treno: lo stesso suono. Lo interpretai come avviso che la colazione era pronta; e non sbagliai. Leonardo Sciascia TODO MODO - 12 - Il refettorio era vasto, fitto di tavole rotonde e quadrate di cui solo due erano apparecchiate e occupate. Don Gaetano mi chiamò alla sua. Il mio posto, alla sua destra. E c’erano altri quattro preti, il portiere compreso. Le cinque donne stavano ad una tavola molto lontana dalla nostra; ma non tanto che non si sentissero le loro voci, i loro discorsi: e si confondevano in quel cerchio come acqua che da cinque bocche sgorgasse in una fontana. Tacquero quando don Gaetano si alzò per la preghiera e la benedizione: e quest’ultima la diresse anche verso di loro, ma con un gesto che senza perdere di solennità aveva una sfumatura noncurante e insieme beffarda: come di chi, mangiata la polpa, getta poi l’osso al cane. Le donne compuntamente si segnarono di croce, mormorarono la preghiera, si riseguarono. E ripresero a cicalare. Don Gaetano si risedette e, cominciando da me, versò il vino a tutti, lodandolo da intenditore, ma con quelle parole francesi che ora usano i non intenditori. Era un vino, disse, della zona; di mezza costa, tra la montagna e il mare; e citò in greco il poeta greco che, a sua opinione, proprio quel vino, di quella zona, aveva celebrato. Non parlò d’altro. Beveva con piacere e mangiava svogliato. E c’era di che svogliarsi, nei cibi: mal cucinati, insipidi; e altro non si poteva, per mandarli giù, che aggiungere sale e pepe, che almeno stuzzicavano al vino, davvero eccellente. Alla fine, scusandosi, don Gaetano mi disse che il cuoco sarebbe arrivato l’indomani sera: e sarebbe stato tutt’altro mangiare. Uguale il pranzo; e così la colazione dell’indomani. Non fosse stata la curiosità che avevo per gli esercizi spirituali, e per coloro che vi avrebbero partecipato, me ne sarei andato; anche se la conversazione di don Gaetano mi dava un grande piacere: parlasse del vino o di Arnobio, di sant’Agostino, della pietra filosofale, di Sartre. Il pranzo della seconda sera fu davvero migliore, anche se relativamente. Il cuoco e i suoi aiutanti erano arrivati nel tardo pomeriggio: e soltanto avevano potuto correggere, rimediare. Ma il miglioramento bastò a sollevarci in un certo buonumore, come constatò don Gaetano: e passò così a deprecare quegli stupidi che mostrano di non curarsi di quello che mangiano o sono tanto naturalmente rozzi o ineducati da non curarsene davvero. Parlò della cucina francese: la sola, e meritatamente, che annoverasse un eroe come Vatel, da paragonare a Catone l’uticense; ché se questo si era ucciso per la libertà che se ne andava, quello per il pesce che non arrivava. E l’atto, davanti a Dio, aveva lo stesso valore, mosso com’era dalla stessa passione: il rispetto di sé. «Ma» obiettai «c’è rispetto di sé e rispetto di sé: non si può, e nemmeno Dio dovrebbe, mettere sullo stesso piano il pesce, che peraltro non era che una delle tante portate alla tavola del decimoquarto, e la libertà». «E perché no? Lasciando stare Dio, poiché quel che sappiamo del suo giudizio è dato dalle scelte che noi operiamo per salvarci, e io penso che conti più la nostra volontà di salvarci che le scelte; lasciando stare Dio, ecco: ammesso che il rispetto di sé sia una giusta scelta, più esemplarmente la testimonia Vatel che Catone l’utitense: Leonardo Sciascia TODO MODO - 13 - il pesce doveva arrivare, e infatti arrivò un’ora dopo che Vatel si era suicidato... Ma la libertà?». Si accese una discussione che la partecipazione degli altri quattro preti subito confuse, aggrovigliò. Lasciammo, don Gaemno ed io, che si sbrigliassero: ognuno a dire la sua senza minimamente far conto di quella degli altri; e, finito il pranzo, li lasciammo che erano quasi arrivati agli insulti. Uscendo dal refettorio, don Gaetano mi chiese se ero proprio deciso a restare per assistere agli esercizi spirituali. Risposi che sì, ero deciso. Mi parve se ne rallegrasse, maliziosamente; ma mi fece, agitando in aria, di taglio, la grande mano bianca, un gesto di scherzosa riprovazione e minaccia; come a dire: cattivo miscredente che vuoi sorprendere il buon credente nel suo nido, nel suo fortilizio: dovrai renderne conto. E così, lasciandomi negli occhi quella sua mano, sparì. (E qui debbo spiegare perché dicendo di don Gaetano che se ne va, che se ne è andato, ho usato i verbi scomparire e sparire; e ancora li userò, e forse anche altri come svanire e dissolvere. E debbo ricorrere al ricordo di un giuoco che si faceva da bambini: si disegnava su un foglio una silhouette tutta in nero, un solo punto bianco al centro; si guardava fissamente quel punto bianco contando fino a sessanta; poi si chiudevano gli occhi o si guardava al cielo: e si continuava a vedere la silhouette, ma bianca, ma diafana. Con don Gaetano succedeva qualcosa di simile: quando se n’era già andato, la sua immagine persisteva come negli occhi chiusi o nel vuoto; sicché non si riusciva mai a cogliere il momento preciso, reale, in cui si allontanava. Che era poi un effetto conseguente a quella specie di sdoppiamento di cui ho tentato di dire. Il fatto è che stando con lui si stabiliva come una sfera di ipnosi. Ma è difficile rendere certe sensazioni). Per una certa impazienza che mi aveva agitato anche nel sonno, mi alzai all’alba di quel gran giorno. Non volevo perdermi l’arrivo di coloro che per tutta una settimana si sarebbero dedicati a quella ginnastica dello spirito ma senza mortificare la carne, poiché il famoso cuoco era arrivato. Anticipai di troppo, però; anche se non ebbi a pentirmene. Non vedevo l’alba, così, da una finestra, sulla terra, almeno da venti anni. Ne avevo visto qualcuna, in tanto tempo, viaggiando in aereo: ma non era la stessa cosa. Stetti per un po’ alla finestra, a godere di quel compiuto e perfetto equilibrio tra la natura e i miei sensi. E mi venne voglia di dipingere. Ma subito me ne distolsi nel limure di squilibrare, di guastare; e cioè di non rendere. Vale a dire che era una voglia del tutto banale e, in un certo senso, accademica; da luogo comune, insomma. Di chi, non sapendo dipingere, o sapendo dipingere senza essere davvero pittore, di fronte a uno spettacolo della natura, a un paesaggio, a una certa disposizione di cose nello spazio e nella Jucc, dice «sarebbe da dipingere» che è, Leonardo Sciascia TODO MODO - 14 - appunto, il più banale e accademico elogio della natura nel tempo stesso che si svaluta e degrada la pittura; la quale, almeno per me, si volge a tutto quel che non sarebbe da dipingere. Era una falsa voglia, del resto: e lo sapevo nel momento stesso in cui mi insorgeva. Lo sapevo dal fatto che avevo i piedi freddi: poiché da quando ho letto la battuta di Voltaire, che per dipingere bene bisogna-avere i piedi caldi (anche se si riferiva ai pitturi inglesi: e direi giustamente, Bacon e Sutherland inclusi), ne ho tenuto conto e ne ho fatto, su me, verifica. I quadri che ho dipinto a piedi freddi sono i miei peggiori; ma ciò non toglie che siano, dai critici e dai collezionisti, i più apprezzati. E ne avevo dipinti tanti, a piedi freddi, perché mi venisse davvero voglia di dipingerne uno mentre mi sentivo libero, non più legato al mestiere, al mercato, alle mostre, al denaro, alla fama; anche se questa libertà, purtroppo, mi veniva dal fatto che avevo già tutto: molta fama, molto denaro, mostre in ogni parte del mondo, un mercato in continua ascesa, un mestiere che mi permetteva di buttar giù anche due o tre quadri al giorno. A piedi freddi, beninteso. Quelli dipinti a piedi caldi, non molti ormai, li tenevo per me: cioè per una più tarda e giusta fama. Ma ad esser sincero, non mi importa poi molto della fama oltre la morte. Mi sentivo libero da tutto, comunque. E anche dalla pittura. O meglio (poiché siamo al discorso, non è inopportuno che tenti di spiegarmi fino in fondo), questa mia specie di fuga, questa mia illusiooe di libertà, altro non volevano essere che una pausa, una battuta d’aspetto: per tornare a una pittura, secondo la saggia prescrizione voltairiana, a piedi caldi. Impossibile ritorno, e a sprazzi me lo dicevo: avrei continuato a dipingere molto a piedi freddi e poco, pochissimo, a piedi caldi. Ma le cose, dentro di noi, sono sempre maledettamente complicate; e tanto più inganniamo noi stessi, o tentiamo, quanto più evidente e immediato si prospetta il disinganno. Stetti dunque, per un po’, alla finestra: a godere quel compiuto e perfetto equilibrio, et coetera... Mi immersi poi nell’acqua ben calda, a riscaldarmi i piedi e a togliermeli così dalla coscienza. E infatti uscii dal bagno rinfrancato. Mi sbarbai, mi pettinai, mi vestii. E scesi giù. C’era gran movimento, nell’atrio. Il personale di servizio si era moltiplicato. E anche i preti, ne contai sette di nuovi, che andavano e venivano, indaffaratissimi. Troppa confusione; e me ne uscii sullo spiazzale, dove avevano messo tante sedie a sdraio: tutte vuote, ma afflosciate e improntate dai corpi che avevano accolto, e disposte come avessero da sé disfatto un ordine di platea per comporne uno di circoli, davano, anche per i colori del legno e della tela grezza, a bande verticali azzurre e rosse, l’impressione di un quadro metafisico. Entrai a completare il quadro: a chi si fosse affacciato da una finestra alta dell’albergo, sarei sembrato un manichino abbandonato su una sedia (io vivo i quadri altrui più dei miei; e specialmente quelli dei pittori da me più lontani). Leonardo Sciascia TODO MODO - 15 - Lo spiazzale era, mi pare di averlo già detto, vastissimo. Oltre lo spazio occupato dalle sedie, ce n’era da consentire posteggio e manovra alle tante automobili che sarebbero arrivate. Ma si fecero le nove prima che cominciassero ad arrivare. Le prime quattro arrivarono in rapida successione. Nel momento in cui la prima si fermò davanti alla porta dell’albergo, don Gaetano si materializzò sulla soglia. Ma forse c’era già da prima. Dall’automobile scese un vescovo. E un vescovo scese da ognuna delle tre che seguivano. Quando furono insieme, mi accorsi che uno dei tre aveva lo zucchetto rosso invece che viola. Un cardinale: e lo distinsi, con scarso rispetto, debbo ammetterlo, per il ricordo di un verso del Belli, «se levò er nero e cce se messe er rosso»: di quando una pattuglia di gendarmi fa irruzione in un postribolo, e il brigadiere che la comanda si vede venire incontro, «serio serio», un prete the solennemente, togliendosi lo zucchetto nero e mettendosi quello rosso, si metamorfosa in cardinale: con grande confusione del brigadiere. Un principe della Chiesa: e perciò una diecina di motociclette, con altrettanti poliziotti che, un piede puntato a terra, vi si scosciavano sopra, rombavano nello spiazzale impedendomi di sentire quel che si dicevano il cardinale, i vescovi e don Gaetano. Ma pareva si scambiassero complimenti e arguzie. Don Gaetano, come al solito, in abito talare; gli altri quattro in pantaloni e giacca grigioferro, pettorale dello stesso colore su cui spiccava il crocefisso d’argento, colletto duro e lucente. E lo zucchetto. Nessuno dei quattro mi pareva avesse spiccata personalità. Due avevano faccia da contadini e due da burocrati. Il cardinale da burocrate: di quelli col regolamento alla mano, di strenua pignoleria. Se si fossero tolto lo zucchetto, a darla ad indovinare, chi tra i cinque la faceva da cardinale era don Gaetano; e gli altri sarebbero sembrati dei parroci, due di città e due di campagna. Pur in atteggiamento di filiale devozione, di gioia e a tratti d’ilarità, don Gaetano manteneva un distacco, una freddezza, una severità che mi suscitavano sentimento di piena ammirazione. Altro che cardinale: poteva anch’essere il papa. I motociclisti si allontanarono levando più alto il loro rombo. Nell’improvviso silenzio, sentii il cardinale lodare la bellezza e grandiosità dell’albergo. Don Gaetano, così mi parve, guardò dalla mia parte con un ammicco di ironico compatimento: per quel povero cardinale che avrebbe dovuto sapere, e non sapeva, quel che è veramente grandioso, veramente bello. Poi disse «Eminenza…» e si tirò dentro l’albergo quel piccolo grappolo di gerarchia. Nell’attenzione a cogliere quel che si dicessero il cardinale, i vescovi e don Gaetano, non mi ero accorto dell’arrivo di altre antomobili. Quasi tutte con autista in divisa, e quindi di enti o di ministeri. Chi ne scendeva doveva essere un ministro, un sottosegretario, un direttore generale, un presidente, un vicepresidente. Qualcuna aveva invece al volante una donna: e mi ci volle poco a capire che si trattava di mogli che accompagnavano i mariti, ma per riportarsi indietro l’automobile. Una mi diede alla fantasia: non propriamente bella (ma le donne propriamente belle non le ho mai Leonardo Sciascia TODO MODO - 16 - amate, una l’ho soltanto sposata e subito lasciata), ma alta e formosa; una espressione intelligente, ironica; qualcosa nei movimenti, nel sorriso, nella luce degli occhi di appena contenuto, di impaziente: come stesse per prorompere in un grido di liberazione; in una corsa, quasi un volo, di gioia. E mentre il marito apriva il portabagagli e ne estraeva le valige, lei volubilmente parlava; e la sua voce suonava per me come un invito, quasi che le raccomandazioni al marito di non prender freddo, di mangiare con moderazione, di mettere a sera il golfino e di non dimenticare ai pasti le pillole, volessero dire per me (ché mi aveva notato e torse riconosciuto): ora lascio questo cretino, questo porco, questo ladro; e per una settimana sarò libera, libera, libera... E mentre decifravo questo suo invito mi sogguardò, ilare e languida, sfidando e promettendo, a confermarmelo. Ebbi per un momento la tentazione di andarle dietro o, più sbrigativamente, di chiederle un passaggio per la città: davanti al marito, cui una certa apprensione nei riguardi della moglie, se era capace di averne, avrebbe giovato per gli esercizi che si appressava a fare. Ma la guardai partire senza muovermi: un distratto bacio al marito, un ultimo sguardo a me, le gambe ben scoperte nel momento in cui tirava a sé lo sportello. E del resto, qualcuno, forse, già l’aspettava: ho accompagnato quel porco all’eremo di Zafer, per i suoi esercizi spirituali; finalmente, una settimana tutta per noi... Ma per un po’ coltivai l’illusione che per me avrebbe piantato l’uomo che l’attendeva. Lo spiazzale era ormai pieno di automobili e mucchietti di valige e borse. I facchini andavano e venivano, in affano e sudore; ma non sapevano, evidentemente, riconoscere il grado degli ospiti che erano già arrivati o arrivavano, e perciò alcuni di costoro li chiamavano e protestavano con un tono che voleva dire: il bagaglio che stai prendendo prima del mio è del mio vicepresidente, mentre io sono il presidente, e vengo prima di lui anche se sono arrivato dopo; o qoalcosa di simile. Ma a parte queste punte di irritazione, che si riversavano sui facchini, l’atmosfera era di una compagnoneria facile e sguaiata: gridi di sorpresa, abbracci, manate, scherzosi insulti. All’arrivo di un ministro la compagnoneria si spense, ci fu un silenzioso movimento di risucchio, verso l’automobile da cui scendeva, come di limatura di fèrro verso la calamita. E così all’arrivo di altri tre o quattro, che non riconobbi. E quando, ad un certo punto, comparve don Gaetano, quel movimento, coinvolgendo il ministro e gli altri a me ignoti potenti, da ogni parte gli si riversò: arrestandosi però alla distanza di di un buon metro, in semicerchio. E mi parve che in quel semicerchio l’ordine delle precedenze si ricostituisse perfettamente, a baciargli la mano. Don Gaetano riconobbe tutti, per ognuno richiamò un particolare relativo alle funzioni o alla famiglia o allo stato di salute; e tutti erano felici di essere stati così riconosciuti e distinti. Ma sempre c’era, in tutto quello che don Gaetano diceva o faceva, come una vibrazione o sfumatura d’irrisione: che, evidentemente, nessuno di quel gregge che intorno gli si raccoglieva era in grado di avvertite. E io l’avvertivo e me ne incantavo: perché mi parevano, quella distillata irrisione, quel sottile disprezzo, esercitati in una specie di Leonardo Sciascia TODO MODO - 17 - consorteria, di solidarietà, che si era stabilita tra lui e me; e che la sua immagine fosse, più vecchia e saggia e consumata, la mia cui aspiravo. Improvvisamente lo spiazzale si svuotò, tornò deserto e silenzioso come al mattino. O improvvisamente ne presi coscienza. Rientrai in albergo. I preti-portieri erano due, ora: quello che c’era al mio arrivo e un altro che era dei quattro che avevo conosciuto a mensa. «E ora che succede?» domandai. «Gli ospiti sono andati alle loro camere: tra una mezz’ora scenderanno per la messa. La celebrerà il cardinale. Poi parlerà don Gaetano». «Nella cappella qui sotto?». «Sì, nella cappella qui sotto». «Potrei assistervi?». «Credo di sì: don Gaetano non ha niente in contrario, che lei assista agli esercizi spirituali, così mi è parso di capire; e poiché gli esercizi cominciano con questa messa...». Ringraziai e mi allontanai. Ero indeciso. E non perché mi paresse un’indiscrezione, ché appunto ero rimasto lì per commetterla, quanto perché temevo di annoiarmi e di essere costretto, per discreziune, a non andarmene prima che tutto finisse. Ma ci andai. E mi annoiai moderatamente. Non assistevo a una messa da almeno un quarto di secolo (e scrivere un quarto di secolo invece che venticinque anni s’appartiene alla mia civetteria d’invecchiare). E poiché era la prima volta che la sentivo in italiano, mi abbandonai a riflessioni sulla Chiesa, la sua storia, il suo destino. E cioè il suo passato splendore, il suo squallido presente, la sua inevitabile fine. Sotto specie estetica, credevo: ma c’era invece, in quel che andavo disordinatamente pensando, qualcosa di più remoto ed oscuro; qualcosa di più pericoloso. Un fondo di disagio, di apprensione; come in chi, partendo, appena partito, sente di aver dimenticato o smarrito qualcosa, e non sa precisamente che. Ma a voler confessare pienamente, e magari in eccesso, quello stato d’animo: mi sentivo un po’ defraudato e sperduto. Quell’immobile macigno cui mi ero, nemico, affilato per anni; quel macigno di superstizioni e paure, di intolleranza, di latino: eccolo friabile e povero come la zolla più povera. Ricordavo ancora (a dieci anni avevo servito messa) certi passi della messa in latino: e li confrontavo all’italiano cui erano stati ridotti; propriamente ridotti, e anche nel senso di quando si dice com’è ridotto il tale. «L’acqua unita al vino sia segno della nostra unione con la vita divina di Colui che ha voluto assumere la nostra natura umana». Che insulsa dicitura, da far pensare a quegli esseri insulsi che a tavola allungano il vino con l’acqua. «Deus, qui humanae substantiae dignitatem mirabiliter condidisti, et mirabilius reformasti: da nobis per hujus aquae et vini mysterium, ejus divinitatis esse consortes, qui humanitatis nustrae Leonardo Sciascia TODO MODO - 18 - fieri dignatus est particeps, Jesus Christus Filius tuus Dominus noster: Qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus: per omnia saecula saeculorum»: dov’era ormai il senso di queste parole e, al di qua o al di là del senso, il mistero? Ma tu, mi dicevo, volevi appunto questo: che il mistero si dissolvesse, che di quel grandioso scenario, di quella maestosa illusione, restassero i nudi e squallidi tralicci, come quando si entra in teatro per i Sei personaggi di Pirandello... Però quella demistificazione del teatro, in Pirandello, è una forma che lo reinventa e riafferma: e volevi dunqne che la Chiesa, rinunciando alla mistificazione e all’inganno, si reinventasse e riaffermasse?... Ma no, volevo che finisse. Ed è già alla fine... Eppure... La verità è che tante cose in noi, che crediamo morte, stanno come in una valle del sonno: non amena, non ariostesca. E sul loro sonno la ragione deve sempre vigilare. O magari, a prova, qualche volta svegliarle e lasciare che da quella valle escano: ma perché se ne tornino giù mortificate e impotenti... Ma se la prova non riesce? Ecco il punto. Al quale, per la verità, non mi ero mai trovato: poiché tutto, dentro di me e intorno a me, era ormai da anni finzione. Non vivevo che ingannandomi, e facendomi ingannare. Soltanto le cose che si pagano sono vere, che si pagano a prezzo di intelligenza e di dolore. E io non pagavo ormai, soltanto, che attraverso le banche. Non c’era sentimento, convinzione, idea per cui mi si chiedesse altro che una firma su un assegno. O su un quadro: poiché quel che dà valore a un quadro è la firma, appunto come ad un assegno. (Una volta o l’altra farò una mostra di tele con la sola mia firma, da vendere a prezzi piuttosto alti; e suggerirò al mercante questo slogan: «fatevelo da voi, un grande pittore ve lo ha già firmato»). Anche del dolore altrui (la malattia, la miseria, il disastro che colpivano persone che conoscevo o che senza conoscerle mi si rivolgevano; la guerra in cui bruciavano o l’oppressione in cui gemevano popoli interi), bastava una firma perché subito le immagini ne svanissero e me ne liberassi. E mi ero così liberato di tante cose; di troppe perché non mi sentissi, in quel momento, lontano dalla verità, dalla vita... Mi assalì allora il pensiero, un po’ molesto un po’ ironico, che continuando così a riflettere e ad accusarmi, avrei finito col fare davvero gli esercizi spirituali: e sarei stato il solo, poiché tutti quegli altri che a fare gli esercizi erano venuti sembravano, ed erano, del tutto alieni dal farli. Durante la messa non facevano che parlarsi all’orecchio, i vicini; salutarsi con cenni e con sorrisi, i lontani. Si sentivano in vacanza: ma una vacanza che permetteva di riannodare fruttuose relazioni, ordire trame di potere e di ricchezza, rovesciare alleanze e restituire tradimenti. «La messa è finita: andate in pace». Ma non dovevano andare: per cui il trapestio e tramestio, che subito si era levato, si spense all’apparire, dietro la balaustrata del coro, di don Gaetano. Quelli che si erano lasciati andare, evidentemente si vergognavano: e sulla loro silenziosa contrizione don Gaetano grandinò il suo biasimo. Parlava con voce strascicata, come chi a stento contiene uno sbadiglio continuamente insorgente; e senza mutar tono passò dai rimproveri alle spiegazioni: Leonardo Sciascia TODO MODO - 19 - del senso e della necesiità di quegli esercizi, per ciascuno e per tutti bilancio di coscienza e per l’anno che era trascorso e per quello che si apriva; consuntivo e di previsione. E come tutti coloro che si erano in quel luogo raccolti, per esercitare lo spirito e rinnovellarne le forze, rappresentavano il mondo cristiano e cattolico nel governo della cosa pubblica e comunque nelle cose volte al pubblico bene, bisognava che in quella settimana mi domandassero, principalmente, assolutamente: abbiamo dato a Dio quel che è di Dio? A questo punto, uno che mi stava davanti sussurrò all’orecchio del vicino «Certamente vuol fare un altro albergo». Ma subito girò lo sguardo intorno, timoroso; e sospettando che io avessi sentito, mi fece un sorriso d’intesa, credendomi della sua schiera: e che non potevo perciò ignorare come quel sant’uomo di don Gaetano, senz’altro santo ma piuttosto esigente, intendesse il dare a Dio. Don Gaetano, peraltro, non entrò nel merito del dare a Dio (omettendo del tutto, si capisce, il dare a Cesare): lasciò che quel tema echeggiasse nelle singole coscienze, a tradursi, secondo la branca di potere e le funzioni di ognuno, in concrete immagini o cifre. «Ora potete andare» disse infine don Gaetano, caricando sulla prima parola il residuo del rimprovero con cui aveva cominciato. Tutti, compostamente questa volta, si alzarono e si avviarono all’uscita. Il cardinale e i tre vescovi erano già spariti, forse dalla sacrestia. Restammo, nella cappella che sembrò più grande, don Gaetano ed io. Don Gaetano pareva, come al solito, non vedermi; ma dopo un po’ cominciò a parlarmi. Aveva capito perché ero rimasto. «Lei non ha ancora visto bene la cappella, che è poi la chiesetta dell’eremo... Come vede, è stata risparmiata: le ultime manomissioni risalgono al seicento... L’eremo di Zafer! Tutta una storia inventata a tavolino: nella seconda metà del secolo scorso, da un erudito locale... C’era la tradizione, la leggenda, di un eremita dalla faccia scura e dalla barba bianca; e il farmacista del paese qui a valle gli diede un nome, Zafer... Io credo che, nella testa del farmacista, le cose si siano combinate così: c’era il nome della contrada, Zaffù; ed era stata pubblicata da poco la traduzione, di Michele Amari, del Solwan el Mota’ di Ibn Zafer. Chissà, il testo gli sarà parso cristiano: capita che isolando qualche passo si veda, in un testo tutt’altro che cristiano, baluginare il cristianesimo... Zaffù, Zafer: tanto più bello Zafer; lo zaffiro, la zaffera, lo zafferano... E poi c’era quel quadro». Me lo indicò, e fino a quel momento non lo avevo visto: un santo scuro e barbuto, un librone aperto davanti; e un diavolo dall’espressione tra untuosa e beffarda, le corna rubescenti, come di carne scorticata. Ma quel che più colpiva, del diavolo, era il fatto che aveva gli occhiali: a pince-nez, dalla montatura nera. E anche l’impressione di aver già visto qualcosa di simile, senza ricordare quando e dove, conferiva al diavolo occhialuto un che di misterioso e di pauroso: come l’avessi visto in sogno o nei visionari terrori dell’infanzia. «Su questo quadro» continuò don Gaetano «il farmacista custruì una leggenda: Zafer, il santo, non ha più una buona vista; il diavolo gli porta in dono le lenti. Ma queste lenti Leonardo Sciascia TODO MODO - 20 - hanno, ovviamente, una diabolica qualità: se il santo le accetterà, attraverso di esse leggerà il Corano, sempre, invece che il Vangelo o Sant’Anselmo o Sant’Agostino. “Ahimè che il puro segno delle tue sillabe si guasta in contorto cirillico si muta...”». La citazione mi sorprese: don Gaetano aveva letto quello che io considero l’ultimo poeta italiano, nel tempo della poesia italiana: e ne aveva versi a memoria. «In questo caso, in cufìco o come si chiama la scrittura del Corano... Inutile dire che Zafer sospetta dell’inganno e non accetta il dono: anzi, ignora addirittura la presenza del diavolo... Ma questo quadro, come lei sa, non è che una copia, piuttosto rozza, di quello del Manetti che si trova a Siena, nella chiesa di Sant’Agostino. Un quadro curioso, comunque. Lasciando perdere le fantasie del farmacista, direi anche inquietante... Il diavolo con gli occhiali: quello che voleva dire il Manetti è abbastanza ovvio, in rapporto al suo tempo; ma oggi…». «Come allora: ogni strumento che aiuta a veder bene, non può essere che opera e offerta del diavolo. Dico per voi, per la Chiesa». «Interpretazione laica, di vecchio laicismo: quello delle associazioni intitolate a Giordano Bruno e a Francesco Ferrer... Io invece direi: ogni correzione della natura non può essere che opera e offerta del diavolo». «Interpretaziooe sadista». «Ma Sade era cristiano» disse don Gaetano distogliendosi dalla contemplazione del qoadro e guardandomi meravigliato: meravigliato che non lo sapessi, che nessuno fino allora me l’avesse detto. «Se lo dire lei…». Con troppo scoperta ironia. «Non lo dico io» disse bruscameote don Gaetano. Si aggirò un pò per la cappella come se io non ci fossi più; poi tornò al qoadro. Io, un po’ irritato con me stesso per la banale ironia di quel se lo dice lei, tentavo di combinare una frase più sottilmente ironica; ma don Gaetano, saliti i gradini dell’altare, aveva tirato fuori, da una tasca interna all’altezza del petto, gli occhiali e, inforcabili, alzandosi sulla punta dei piedi si era inclinato a scrutare l’angolo destro del quadro. Quando si voltò per dirmi «C’è la firma, venga a vedere» ebbi un momento di vertiginoso stupore: i suoi occhiali erano una copia esatta di quelli del diavolo. Non colse, ché doveva essere visibile, il mio stupore; o finse di non coglierlo, godendoselo. Del resto, io passai subito a rintuzzare il colpo, se da parte sua c’era stato il gusto di far colpo, assumendo un’espressione che voleva dire: vecchio istrione, serba per il tuo gregge di imbecilli la trovata di questi occhiali. Ma non sembrò far caso nemmeno al mio passaggio dallo stupore al dispregio. Mi avvicinai a leggere la firma. Stentatamente decifrai: b, u, t, a, s, u, o, c, o; Butasuoco. «Buttafuoco» corresse don Gaetano. «Lei non ha visto la seconda t e ha letto s la f... Nicolò Buttafooco, un pittore locale. E secondo un altro erudito, di due secoli fa e non meno fantasioso del farmacista, nel diavolo è il suo autoritratto, corna Leonardo Sciascia TODO MODO - 21 - comprese... Un giorno, mentre dipingeva una Madonna, poiché aveva come modella una baldracca, gli venne da dire: “allora questa Madonna farà miracoli, quando a me spunteranno le corna”; ed ecco che gli spuntarono, e fu il primo di una lunga serie di miracoli che quella Madonna poi fece... Meritatissime corna, per come bestialmente dipingeva». Si tolse gli occhiali e se li ripose in petto. E con la voluta indifferenza di chi ha ormai fatto il colpo, del gatto che si è mangiato il canarino, continuò «A questo nome, Bottafuoco, si collega sempre, nella realtà come nella fantasia, qualcosa che ha a che fare col male, o almeno con l’imbroglio: questo pittore che si fa un autoritratto da diavolo; il Buttafuoco di Boccaccio, nella novella di Andreuccio da Perugia... Deliziosa, quella ricerca del Croce sulla novella di Boccaccio: l’aver trovato nei registri angioini un Buttafuoco tra i profughi siciliani…» e continuò così a divagare, tenendomi sottobraccio, andando verso il refettorio. Mi volle ancora alla sua tavola. Al posto dei quattro preti c’erano il cardinale e i tre vescovi; e due posti erano stati aggiunti, per il ministro e un industriale. Mi sentivo in grande disagio. E non perché mai ero stato a tavola con ministri, industriali e prelati (ché d’ordinario, anzi, non c’era giornata che non me ne trovassi qualcuno, o tutto un assortimento, a mensa); ma per il luogo e il momento: un albergo tenuto da preti, un raduno di cattolici per esercizi spirituali. E come io ero sorpreso e stranito per il fatto di trovarmici, ancora di più quegli altri quando don Gaetano fece le presentazioni (impeccabilmente presentò me ai quattro prelati e presentò a me il ministro e l’industriale). E forse credettero, subito, a una mia conversione; ma quando, porgendumi il cardinale la mano al bacio, io gliela abbassai nell’usuale stretta, si dipinsero di perplessità: ma verso don Gaetano. Su di lui conversero sguardi tra l’interrogativo e il preoccupato: e don Gaetano spiegò che mi trovavo lì per caso, per curiosità, quasi per avventura. Poiché quel che faceva don Gaetano non poteva che andare a buon fine, si rassicurarono. E tutti, subito, si credettero in dovere di lodare qualche mio quadro: i prelati quelli che avevano visto in mostre o collezioni, il miuistro e l’industriale i propri (e mi risultava ne avessero, e anche di quelli dipinti a piedi caldi). Si passò così a parlare di pittura: e nonostante i complimenti che mi avevano rivolto, fu immediatamente chiaro che per i quattro prelati la pittura era bella e morta da un secolo o quasi, ultimo a praticarla essendo stato Nicolò Barabino (e mi affiorò alla memoria, a questo nome, l’immagine della Madonna dell’Ulivo che mia madre si teneva, in riproduzione oleografica, a capo del letto e che io, forse dalla prima volta che ebbi in mano una matita, per anni copiai: sempre prodigiosamente, secondo mia Leonardo Sciascia TODO MODO - 22 - madre; alla fine passabilmente, secondo me); e che per il ministro e l’industriale non era mai esistita se non, ad un certo punto della loro vita e della loro ricchezza, sotto specie di investimento e quotazione. E non erano perciò d’accordo coi prelati: poiché in antiquariato le quotazioni andavano incerte sui pittori minori e incalcolabili, al di là di ogni vero e proprio apprezzamento, sui grandi; mentre sicure, e in sicura ascesa, andavano sui contemporanei, grandi o piccoli che fossero. Solo che tra i contemporanei non c’erano grandi, obiettò il cardinale. Ma subito, senza convinzione, aggiunse «A parte, si capisce, il nostro amico qui presente». Io, senza convinzione, mi schermii e feci il nome di Guttuso. Il cardinale disse che ci voleva altro, alla grandezza. Don Gaetano prese invece a lodare, di Guttuso, quella Crocefissione che trent’anni prima aveva fatto scandalo e che ora si sperava, disse, acquisire ai musei vaticani. Uno dei vescovi domandò perché lo scandalo. «Perché tutti i personaggi vi sono nudi» disse don Gaetano, con tono di beffarda meraviglia verso coloro che trent’anni fa si scandalizzavano a veder popolata di nudi la scena della Crocefissione. I prelati convennero che spogliare il Cristo, la Madonna e le dolenti era cosa del tutto innocente, se con innocenti intenzioni e risultati; e poi, ben altre bestemmie rivolgeva il tempo nostro a quella sublime tragedia. E si stava passando a classificare le bestemmie del nostro tempo, quando uno dei vescovi tornò su Guttuso, avanzando la riserva che era comunista. «E chi non lo è?» disse don Gaetano. E con intonazione parodiante «Perché non possiamo non dirci comunisti». Non si capiva se dicesse sul serio o scherzasse. Si ebbe perciò, da parte di tutti, e anche da me, ambigua approvazione. E cadde il silenzio. Lo ruppi, intimidito ma sforzandomi a un tono leggero, quasi un tono di scherzo e di scherno, domandando cosa pensassero della restaurazione del diavolo operata da Paolo VI. «Oh, il diavolo» sbuffò ironicamente il cardiisale. E la sua ironia, come subito dopo verificai, non era rivolta soltanto a me che ne domandavo. «Con tutto il rispetto, si capisce, con tutta la filiale devozione che si deve al Santo Padre» disse il ministro «io mi domando se questo era il momento di tirar fuori la questione del diavolo». E mi guardò a sfida, a farmi prendere atto della sua spregiudicatezza, del suo coraggio, di fronte a un cardinale, tre vescovi e un prete noto per ingegno, dottrina e potenza. «È il momento» disse don Gaetano facendo perno sull’è. Successe, mi parve di indovinare, una specie di movimento di assessamento: nelle menti dei quattro prelati, dei due devoti. Come quando si dice che una casa appena costruita si è assestata: ed è che vi compare qualche crepa. In quelle menti ne rameggiava ora qualcuna. Leonardo Sciascia TODO MODO - 23 - «Non dico che non sia il momento» disse il cardinale. «Dico, ecco, il modo... Non so... Forse si poteva…». E tacque, astutamente lasciando che gli altri si lanciassero a scalare quel si poteva, in cima al quale sarebbero stati colpiti dalle folgori dottrinarie di don Gaetano. Ma non meno astutamente, i tre vescovi e i due devoti elusero la discussione teologica (e mi delusero); e si diedero a parlare del discorso di Paolo VI sul diavolo come di un fatto puramente burocratico, di una circolare ministeriale; e del papa come di un ministro i cui decreti, più o meno maldestri, più o meno oscuri, sono poi opera dei direttori generali: e ce ne sono di devoti al ministro ma incapaci, di capaci ma non devoti, di capaci e devoti, di incapaci e non devoti. «E la salute, la salute del papa?» s’informò l’industriale. «I papi» disse don Gaetano «sono sempre in buona salute. Si può dire, anzi, che non solo muoiono in buona salute ma di buona salute. Parlo, si capisce, di salute mentale» rivolgendosi all’industriale «poiché la sua domanda, indubbiamente senza malizia, a quella alludeva... Altri mali, altri acciacchi, non contano». «Già» io dissi «non si è mai dato il caso di un papa che per età, per arteriosclerosi, cominci a sragionare. Voglio dire: non si è mai saputo». «Non si è mai dato, appunto» disse il cardinale. «Non si è mai saputo» ribadii. «Le cose che non si sanno, non sono» disse don Gaetano. «Io direi che certe cose possono non sapersi, ma sono» risposi. «Sì, d’accordo. Ma tenga presente che stiamo parlando della Chiesa, del papa» disse don Gaetano. «Una forza senza forza, un potere senza potere, una realtà senza realtà. Quelle che in ogni altra cosa mondana non sarebbero che apparenze, a nascondere o a mistificare, nella Chiesa e in coloro che la rappresentano sono le interpretazioni o manifestazioni visibili dell’invisibile. E cioè tutto... Ciò non toglie che, volendo, possiamo anche prenderci il gusto di dar la caccia alle stramberie, di temperamento o senili, di qualche papa... Di Pio Il, per esempio, a scrutar bene quei suoi deliziosi Commentari... Intanto, la stramberia che è nel fatto stesso di scrivere, da papa, la storia della propria vita: che è affezione più da avventuriero che da papa…». Cardinale e vescovi si irrigidirono, negarono: ma venne fuori che non avevano letto i Commentari, mentre don Gaetano era in grado di citare a memoria tutti i passi che gli facevano giuoco. «Direi» continuò «che ad un certo punto, il punto in cui comincia a dettare i Commentari, Pin II non riuscisse più a contenere la propria soddisfazione per quell’ascesa al pontificato in cui il suo spirito aveva avuto più parte che lo Spirito Santo. L’irresistibile voglia di proclamare: guardatemi, qui sul soglio di Pietro; sono il vecchio Enea Silvio, quello della Storia dei due amanti; ce l’ho fatta, ve l’ho fatta... Un eroe stendhaliano avant la lettre…». E a tranquillizzare il cardinale, che in imbarazzo già tentava di richiamarlo all’ordine con stizzosi colpettini di tosse «Ma è stato un grande papa, eminenza: grandissimo e santo. E poi, è morto più di Leonardo Sciascia TODO MODO - 24 - cinque secoli addietro... E mi viene un’idea: poiché è morto nella notte dal 14 al 15 agosto del 1464, alla chiusura del secondo turno di esercizi, che cade proprio alla ricorrenza, parlerò di Pio II agli esercitanti». «Buonissima idea» disse il cardinale: ma freddamente. «Ottima» farfugliò, masticando grosso, il ministro: e indicava, muovendo la forchetta come un aspersorio, il proprio piatto. Diceva per la faraona farcita, che era davvero apprezzabile. E qui mi accorgo che per riferire i discorsi che si facevano ho trascurato di descrivere l’animatissima sala e l’andamento della refezinne (ché così erano indifferentemente chiamati i pasti del mezzogiorno e della sera). Il menù, un pieghevole a stampa, carta spessa, il diavolo che tenta il santo riprodotto al tratto sulla prima facciata, era particolarmente ricco: e veniva materializzandosi davanti a noi, apprezzabile, come ho detto, nella qualità oltre che nella quantità. Di colpo, tutto era cambiato all’hotel di Zafer: il refettorio era gremito, un cuoco dava il meglio di sé, il servizio era celere e accurato. Lo disimpegnava, oltre a una diecina di camerieri, una squadra di ragazze cui l’appartenere a non so che ordine terziario non le privava di una certa procacità e civetteria. Altri particolari: su ogni tavola esplodeva un bouquet vivacemente disposto; le cinque donne erano scomparse; a benedire le mense fu il cardinale. E a questo proposito potrei dire che mi sentii come un cane in chiesa, ma per amore alle mie opinioni dico come un uomo in un canile, quando tutti si levarono in piedi, si segnarono, dissero la preghiera, si risegnarono. Debbo però confessare che non ce la feci, per come mi proponevo, a restar seduto mentre tutti si levavano. Uscendo dal refettorio agganciai il prete zazzeruto, quello che leggeva «Linus», per domandargli dove fossero finite le cinque donne. «Ma le pare? Se ne stanno in camera» alquanto oscuramente mi rispose, e quasi fuggendo. Nel pomeriggio, il cardinale aprì il corso degli esercizi. Parlò per più di un’ora. Lo seguii distrattamente, ma meno distrattamente che i suoi. Tambureggiò La Bibbia, particolarmente l’Esodo, argomentando sul movimento teologico, credo nuovo, della speranza. Da quel che riuscii a capire, questo movimento chiamava speranza la disperazione. Non un riferimento ai Vangeli; e solo due o tre volte il nome di Cristo. Quando il cardinale voltò l’ultimo dei foglietti che era andato leggendo, il discreto respiro di sollievo di ognuno si fuse in un tutto che somigliò allo sbuffo di un aerostato che si sgonfia. Ci furono, alla fine del discorso, applausi. Il cardinale fece un gesto a farli tacere; e quando si spensero, don Gaetano prescrisse che ognuno si ritirasse nella propria camera, a far meditazione per un’ora sul discorso di sua eminenza. Colsi, nel gregge che usciva, tutt’altra intenzione. Si dicevano di libri da Leonardo Sciascia TODO MODO - 25 - leggere, relazioni da fare, corrispondenza da sbrigare, telefonate che attendevano. Indicando un tipo dall’aria ascetica, piccolo, lenti grosse, uno che nell’uscire mi ero trovato a lato mi disse «Quello sa che cosa fare, in camera». Domandai chi fosse e che cosa avesse da fare in camera. «Ma come, non lo conosci. ȅ». Disse un nome che conoscevo. «Ecco, mi pareva... E che cosa ha da fare?». Mulinò la mano a dire cose meravigliose, cose dell’altro mondo, mentre la faccia gli si dipingeva di gaudente malizia, di golosità, d’invidia. E si allontanò da me, improvvisamente diffidente. Nello spiazzale c’erano soltanto due, che animatamente discorrevano. Parlavano di strade, di appalti. Don Gaetano, che uscì dopo di me, così li colse. Puntò su loro l’indice, e vibratamente «Avvocato, onorevole! Mi meraviglio di voi: ancora qui, a parlare delle vostre e nostre miserie! Andate in camera a meditare sulle parole di sua eminenza!». Come bambini sorpresi a rubacchiare in dispensa, i due si separarono; e uno dietro all’altro si infilarono nell’albergo. Don Gaetano sorrise e venne verso di me. «Scommetto che lei mediterà più di tutti loro, sul discorso di sua eminenza». «Non mi faccia tanto credito» dissi. «Sto meditando, sì: ma su un’allusione, credo maliziosa, che ho colto ora, all’uscire dalla cappella. Un tale, indicando…» e feci il nome dell’uomo che mi era stato indicato «ha detto: quello sì, che sa che cosa fare in camera; o qualcosa di simile. Mi chiedevo a che volesse precisamente alludere». «A una donna, naturalmente». «A una donna che si tiene in camera?». «Non precisamente: la donna ha una sua camera». «Ho capito: è una delle cinque». «Una delle cinque, sì. E tutte e cinque sono qui per lo stesso motivo. Ma non per lo stesso uomo, si capisce». «E lei permette...?». «Amico mio: io permetto tutto. Ammetto e permetto». «Ma, dico, gli esercizi spirituali…». «Ho l’impressione che lei ci creda più di me: che li prenda cioè alla lettera o nel significato originale, ignaziano... E del resto credo che il laicismo, quello per cui vi dite laici, non sia che il rovescio di un eccesso di rispetto per la Chiesa, per noi preti. Applicate alla Chiesa, a noi, una specie di aspirazione perfezionistica: ma standone comodamente fuori. Noi non possiamo rispondervi che invitandovi a venir dentro e a provare, con noi, ad essere imperfetti... Comunque, voglio mettermi dal suo punto di vista, e cioè nel concetto degli esercizi spirituali come macerazione... Ebbene: questi cinque disgraziati hanno mogli, figli, elettori, avversari, amici e nemici che li Leonardo Sciascia TODO MODO - 26 - ricattano, amici e nemici che controllano i loro passi e i loro telefoni... Si sono fatta la loro amante, come d’uso. E per tutto un anuo vagheggiano questa settimana, qui, degli esercizi: e finiscono col farli davvero... Mandano prima le loro donne; raccomandandomele, si capisce, ché non le accetterei senza le loro raccomandazioni, come persone dai nervi a pezzi, che cercano serenità e riposo alle loro vicissitudini familiari, alle loro sventure, in un ambiente confortevolmente religioso. Io faccio finta di non capire, di non sapere: e le accetto. Perché so bene che quel loro vagheggiamento di una settimana di amore si risolverà in una settimana d’inferno... Il cretino che lei ha sentito immagina delizie e deliri erotici. E invece sa che cosa stanno facendo, questi cinque adulteri, questi cinque peccatori? Stanno litigando. E stanno litigando senza motivo, o per qualche motivo futile, per una specie di autopunizione: appunto perché si sentono adulteri, si sentono peccatori... Se lei va ad ascoltare dietro le loro porte (lo fanno tanti, in questo momento), li sentirà litigare: più che una qualsiasi coppia legittima, con più furore, con peggior crudeltà... Mi creda: il miglior modo di fare all’amore è quello immediato, fuggevole, che offrono le prostitute...». «Ma lei, così...». «È una cosa talmente semplice, il fare all’amore... Che è poi l’amore: non ce n’è altro, tra un uomo e una donna... È come aver sete e bere. Non c’è niente di più semplice che aver sete e bere; essere soddisfatti nel bere e nell’aver bevuto; non avere più sete. Semplicissimo. Ma pensi se l’uomo avesse dedicato all’acqua, alla sete, al bere (per un diverso ordine della creazione e dell’evoluzione) tutto il sentimento, il pensiero, i riti, le legittimazioni e i divieti che ha dedicato all’amore: non ci sarebbe niente di più straordinario, di più prodigioso, del bere quando si ha sete... E in quanto alle prostitute: consideri se le migliori bevute che abbiamo fatto nella nostra vita non sono quelle a una fontanella all’angolo di una strada, al pozzo lungo lo stradale di campagna…». «Non è nuova, questa della sete e del bere». «Una rivoluzionaria russa; ma Lenin, se ricorda, pose la questione del bicchiere: che rifiutava di bere nel biechiere a cui altri aveva bevuto. Piuttosto reazionario, non le pare?». «Puritano, direi puritano. Tutti i rivoluzionari lo sono». «Sì, se avesse detto: io bevo sempre nello stesso bicchiere...». «D’accordo. Ma non le pare di essere tanto più reazionario, postulando l’esistenza delle prostitute?». «Ma io sono tanto reazionario quanto rivoluzionario». «E non fa questione di bicchieri». Alquanto maliziosamente. «Alt. Non diventi grossolano: cerchi di liberarsi di quella malevola e volgare letteratura sui preti di cui tutti gli italiani, anche quelli che praticano la religione, sono Leonardo Sciascia TODO MODO - 27 - impeciati. Sia più sottile, e più serio... Io posso dire di me quello che un cronista medievale diceva di Arrigo VII: “egli stava casto della persona, e la castità doveva averlo infracidato dentro”. È la castità che mi porta a semplificare quello che si osa chiamare amore. Ed è la non castità che porta lei a complicarlo. Certo, lo riconosco, la castità è spaventosa: ma soltanto nei primi tempi che la si sceglie ed affronta... Poi avviene qualcosa di simile, lei mi può capire, a quel che succede nell’arte, per chi la fa: i limiti e le preclusioni espressive ne sono la forma, non sono limiti e preclusioni. Allo stesso modo, la castità è la forma più sublime cui l’amor proprio può accedere: un far diventare arte la vita». «Io non posso vivere» dissi «se non amando una donna: e con tutte le complicazioni possibili. Non sempre la stessa donna, si rapisce. Ne scompare una, dalla mia vita, e ne compare un’altra. E a volte la seconda compare prima che sia scomparsa la prima». «E scommetto che è sempre la stessa. Voglio dire nel carattere, se non addirittura anche nel fisico». Ci pensai un po’. «Forse vincerebbe la scommessa» dissi. «Lo vede? Lei è affetto da un male piuttosto comune, piuttosto banale... Si finisce dall’essere bambini con la pubertà, ma i più trovano modo di continuare ad esserlo nel campo dell’attività erotica in cui la pubertà immette... Mi spiego: la cosa più seria che hanno scoperto gli studiosi della psicologia infantile tra le tante non serie, è quella denominata legge della ripetizione del simile o dell’uguale, non ricordo bene. Era così facile da scoprire, peraltro!... Un bambino chiede che gli si racconti la stessa fiaba, preferisce lo stesso giocattolo, ripete lo stesso giuoco: fino a che non è più bambino. Il dongiovannismo non è che il prolungamento di questa legge oltre la pubertà: nella giovinezza, alla vecchiaia. E sono passati dalla giovinezza alla vecchiaia, saltando lo stadio della maturità, appunto perché la maturità, negli uomini afflitti da un simile male, non esiste. Il dongiovannismo è un prolungamento di immaturità: fino al rimbambimento, che è poi la giusta preconclusione, e alla morte... Ci faccia caso: tutti i dongiovanni finiscono col rimbambire». «Mi ucciderò un po’ prima. Ammesso che io sia davvero affetto da dongiovannismo». «Lo è. E non si ucciderà un po’ prima: per il semplice fatto che non riuscirà a vedere la linea di demarcazione, il confine». «Non le pare di stare usando le vecchie armi della sessofobia cattolica, in questo momento, contro di me? Con la variante che mi promette il rimbambimento invece che l’inferno». «Si sbaglia di grosso: non c’è mai stata una sessofobia cattolica. Nel passato, non si è fatto altro che arricchire e raffinare. Se mai oggi, nella permissività, si può intravedere un movimento di sessufobia... E in quanto a promettere, cioè a Leonardo Sciascia TODO MODO - 28 - minacciare, non le minaccio niente. La mia è una constatazione. Può farla anche lei, se appena si guarda intorno. Di uomini che sono andati dietro a donne, una dopo l’altra o due e tre assieme, penso ne avrà conosciuti: provi a ricordare gli ultimi anni della loro vita». E mi lasciò a questa desolante recherche. Puntualmente, dopo un’ora, gli ospiti ripullularono nello spiazzale. Avevano meditato, e si vedeva. Erano in preda all’ansietà di comunicarsi i risultati della meditazione; proposte in numeri e numeri in proposte, piccanti aneddoti a carico di amici-nemici e di nemici-amici, adulazioni, condiscendenti apprezzamenti; e qualche barzelletta oscena piuttosto arretrata. I più, a due a due, si parlavano nell’orecchio: e mi venne da pensare al nunquam duo che è regola dei seminari, e dovrebbe essere di ogni riunione di cattolici. Era facile immaginare che i due che si parlavano vicino a me stessero complottando qualcosa contro quegli altri due che stavano dalla parte opposta, e viceversa; e così ogni coppia contro ogni altra distante: sicché lo spiazzale diventava come un telaio su cui si stendeva una fitta trama di inganni, di tradimenti; e le spole che passavano da una mano all’altra. Andavo da una coppia all’altra, da un gruppo all’altro, cogliendo parole, frammenti di frasi, intere frasi: sussurrate, a volte sospese ed esitanti, a volte ferme. Nell’insieme, pareva che tutti parlassero della refezione consumata a mezzogiorno e di quella che sarebbe stata consumata tra un paio d’ore: della inappetenza di qualcuno e della fame dei più. Quello mangia, quello ha una fame, quello non ha mangiato ancora, non vuole mangiare, vuole, non può, bisogna farlo mangiare, deve finire di mangiar tanto, c’è un limite al mangiare; e così via. Mi resi tonto che era un parlar figurato, e spinsi la figurazione a vederli tutti annaspare dentro una frana di cibi in decomposizione. Mi allontanai verso il bosco. E tornai in albergo che tutti erano già a tavola. Dun Gaetano mi chiamò con un gesto al mio solito posto. Il cardinale e i vescuvi non c’erano più. Al loro pusto sedevano altri personaggi, che don Gaetano mi presentò. Non mi erano ignoti i nomi e le cariche di ognuno. Feci il proposito di ripartire l’indomani. Alla conversazione, per quanto diversi fossero gli argomenti su cui trascorse, non partecipai. Non l’ascoltai, anzi, se non nei momenti in cui don Gaetano interveniva. Ed erano sempre interventi affilati e rapidi: citazioni che cadevano con fredda autorità, calembours, battute. In gran parte a mio beneficio, chè mostrando sempre occhi senza sguardo, lontani o vacui, invece mi scrutava e decifrava la ragione del mio silenzio. Mi offriva perciò la sua solidarietà nel disprezzo; come a dire: capisco la sua insofferenza, ma guardi come li tratto. Io però ce l’avevo anche con lui. Leonardo Sciascia TODO MODO - 29 - Finita la refezione e man mano che i commensali uscivano all’aperto, vidi che tutti andavano raccogliendosi inturno a don Gaetano: non casualmente, ma come per un’adunata stabilita, prescritta. E il mio malumore si dissolse nella curiosità. Facevano cerchio. Ad un certo punto, forse quando ritennero di essere tutti presenti, il cerchio si scomupose e prese forma di quadrato. Don Gaetano, che era stato al centro del cerchio, si trovò nel mezzo della prima fila del quadrato. Così ordinati, stettero un momento fermi e in silenzio: poi si alzò la voce di don Gaetano «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen» e il quadrato si mosse. Lo spiazzale, come ho detto, era vasto; e ancora più vasto lo rendeva il fatto che le luci vi erano state quasi tutte spente. Il quadrato marciò dalla porta dell’albergo al margine opposto. Arrivandoci, mi parve si aggrumasse in confusione e stentasse a ricomporsi, mentre in coro recitavano il Padrenostro. Ricomposto, venne verso l’albergo con l’Ave-maria: e alla luce che veniva dalla porta e dalla finestra del pianterreno, vidi che in prima fila, con don Gaetano sempre nel mezzo, non c’erano gli stessi di poco prima. E mi accorsi che il movimento era in effetti più ordinato di quanto mi era parso da lontano: fermandosi un po’ prima del dietrofronte, don Gaetano lasciava che il quadrato si aprisse al suo star fermo e andasse avanti, ricongiungendosi, finché lui non si fosse trovato, al momentu del dielrofronte, al centro dell’ultima fila, che diventava la prima. Certo, qualcuno si confondeva: ma la recitazione del Rosario non perdeva ritmo. Accanto a me venne a sedersi qualcuno. Non ci feci caso; ma quando sentii che pianamente rideva e sogghignava, mi voltai a guardarlo. Era in maniche di camicia, una salvietta al collo, un’altra in mano che si passava sulla testa e sulla faccia. Mi disse «Ci vengo a ogni estate per non perdermi questo spettacolo, anche se mi pagano male. Li goardi». Fece una breve risata, un sogghigno; poi rapidamente, come al cinema quando non si vuol perdere il filo dell’azione, l’entrata di un personaggio «Sono il cuoco» e si immerse, emettendo di tanto in tanto un trillo di godimento, nello spettacolo. E c’era di che. Quell’andare su e giù nello spiazzale quasi buio, non come in un quieto passeggio ma a passo svelto, appunto come chi ha paura del buio e si affretta a raggiungere la zona di luce (che era quella all’ingresso dell’albergo: e lì infatti il loro passo si faceva più lento, a indugiarvi prima di riaffrontare il cammino verso la parte più buia); quelle loro voci che si levavano nel Padrenostro, nell’Ave-maria, nel Gloria con un che di atterrito e di isterico; la voce di don Gaetano, che succedeva alle loro, distante e fredda: e da quella voce espressioni come «misterioso messaggio», «mistero della salvezza», «antico serpente», «spada che trafiggerà l’anima» si intridevano di un senso tutto fisico, non più metafore ma eventi che stavano realizzandosi, che si realizzavano, in quel posto al confine del mondo, al confine dell’inferno, che era l’hotel di Zafer. E in quel momento anche chi, come me e come il cuoco, li vedeva nell’abietta mistificazione e nel grottesco, scopriva che c’era Leonardo Sciascia TODO MODO - 30 - qualcosa di vero, vera paura, vera pena, in quel loro andare nel buio dicendo preghiere: qualcosa che veramente attingeva all’esercizio spirituale: quasi che fossero e si sentissero disperati, nella confusione di una bolgia, sul punto della metamorfosi. E veniva facile pensare alla dantesca bolgia dei ladri. «Le è piaciuta la scena del Rosario?» mi domandò l’indomani don Gaetano. «Moltissimo». «Sapevo che le sarebbe piaciuta». «Peccato che si fosse solo in due a goderla: il cuoco ed io». «Ah, il cuoco... Sì, lo so, è un aficionado. Un uomo intelligente, e si vede da come cucina: ma un anticlericale arrabbiato, all’antica. Non credo che sia comunista; repubblicano, forse, o socialista... Ma lei sbaglia, a credere che eravate solo in due a godervela: me la godevo anch’io». «Mi permette una domanda?». «Prego». «Che prete è lei?». «Un prete come tutti gli altri preti». «No, proprio non direi». «Lei ne conosce molti, di preti?». «Ne ho conosciuti. Da ragazzo, da giovane. In un piccolo paese. Due o tre buoni, nove o dieci cattivi. I buoni erano quelli che non si intrigavano nei fatti degli altri; non erano esosi nelle tariffe per matrimoni, funerali e battesimi; facevano qualche abbellimento, cioè qualche guasto, alla loro chiesa; non davano luogo a maldicenze. I cattivi erano quelli avidi e avari; che lasciavano andare a pezzi la loro chiesa; che confessando le mogli aizzavano contro i mariti; che avevano intorno orsoline, figlie di Maria e bigotte danarose. Ma sia i buoni che i cattivi, nel modo più totale ignoranti». «Capisco il suo problema: non sa se mettermi tra i buoni o tra i cattivi... Ebbene: sono molto cattivo». «No, non è questo il mio problema». «Ma sì, è questo... E lei l’avrebbe già risolto mettendomi tra i cattivi, se non ci fosse la piccola difficoltà che non sono ignorante... J’ai lu tous les livres... Ma può rimuoverla, questa difficoltà: sono un prete cattivo che, a differenza di quegli altri cattivi che ha conosciuto un tempo, ha letto tanti libri... Le voglio anzi regalare un piccolo paradosso, a spiegazione del mio classificarmi tra i cattivi non per modestia Leonardo Sciascia TODO MODO - 31 - ma per convinzione: i preti buoni sono quelli cattivi. La sopravvivenza, e, più che la sopravvivenza, il trionfo della Chiesa nei secoli, più si deve ai preti cattivi che ai buoni. È dietro l’immagioe dell’imperfezione che vive l’idea della perfezione: il prete che contravviene alla santità o, nel suo modo di vivere, addirittura la devasta, in effetti la conferma, la innalza, la serve... Ma questa è una verità del tutto banale: potrei anche assottigliarla o complicarla». «Il più grande papa è stato dunque Alessandro VI». «Anche questa è una banalità: una battuta, mi scusi, che potrei aspettarmi dal cuoco. Ma voglio seguirla sul suo terreno: Alessandro VI, malgré lui, è stato un grande papa. Se mi chiedesse di scegliere tra Pio X e Alessandro VI…». «Sceglierebbe Alessandro VI». «Appunto. Ma siamo, lo tenga presente, nella sfera del paradosso. Se ne usciamo, posso anche dirle che la grandezza della Chiesa, la sua transumanità, sta nel fatto di consustanziare una specie di storicismo assoluto: l’inevitabile e precisa necessità, l’utilità sicura, di ogni evento interno in rapporto al mondo, di ogni individuo che la serve e la testimonia, di ogni elemento della sua gerarchia, di ogni mutamento e successione...». «Lei è un fanatico». «Crede che potrei non esserlo, con questa veste? Se, beninteso, per lei fanatico è chi ha delle certezze... Ma le mie certezze, lei questo non lo sa, sono altrettanto corrosive che i suoi dubbi... Comunque, possiamo rientrare nel paradosso, se il paradosso è la forma di verità che più le aggrada». «No, restiamone fuori. Anzi, nella forma più diretta, più semplice, mi dica: che cosa è la Chiesa?». «Ecco: un prete buono le risponderebbe che è la comunità convocata da Dio; io, che sono un prete cattivo, le dico: è una zattera, La zattera della Medusa, se vuole; ma una zattera». «Ricordo il quadro di Géricault, ma non ricordo bene che cosa è accaduto su quella zattera, anche se parecchi anni fa ho letto tutto un libro. Qualcosa di terribile: proverbialmente... Si è salvato qualcuno, su quella zattera?». «Quindici, su centoquarantanove: forse troppi... Oh no, non dico per La zattera della Medusa: dico per quella della Chiesa. Il dieci è percentuale piuttosto alta». «E quello che hanno fatto quei quindici per salvarsi?». «Non mi interessa. Cioè: non mi interessa dal momento che La zattera della Medusa è metafora, per me, di ciò che è la Chiesa». «Preferisco perire subito, nel naufragio». «Ma no, lei sta nuotando per raggiungere la zattera. Perché il naufragio c’è già stato…». Fece un sorriso quasi divertito «Non se ne è accorto?». Leonardo Sciascia TODO MODO - 32 - Restai solo. E pensando alla Zattera della Medusa, cercando di ricordare quel che vi era accaduto, mi avviai verso la mia automobile. Non riuscivo a raggiungere, nella memoria, quei fatti; ma ne risentivo l’orrore provato allora leggendoli. Del cannibalismo, quasi certamente. «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue». Il Totem e tabù, il mio primo incontro con Freud: una grande rivelazione, un lampo abbagliante. Poi ci si rende conto che le grandi rivelazioni vengono da una luce più discreta e continua, quasi inavvertitamente... Ma no, non stavo nuotando per raggiungere la zattera. E nemmeno c’era già stato il naufragio. La vita era ancora, per me, un vascello di equilibrata e librata alberatura (come tradurre lo «steamer balançant ta mâture» della poesia di Mallarmé da cui don Gaetano aveva citato quel mezzo verso, «ho letto tutti i libri»? E così, ripetendomi dal principio «La chair est triste, hélas! et j’ai lu tous les livres…» mi distrassi dall’irritante pensiero del naufragio e della zattera). Me ne andai in città. Un forno: ma mi ci immersi con un certo piacere; come a contraddire, accettando il caldo, l’estate rovente, don Gaetano e il suo eremo-albergo: quella frescura, quella delizia dei venti. Riguadagnai l’eremo nel primo pomeriggio, ma per andarmene a dormire nel bosco. Questa, almeno, era l’intenzione. Finii però nella radura dove le donne prendevano il sole, e stavolta tra loro. Un pomeriggio delizioso. Ma non spinsi troppo oltre il giuoco, e specialmente con quella che più ci stava (ma ci stava di più perché non ero riuscito a nascondere che la preferivo), poiché l’indomani, avevo ormai deciso, me ne sarei andato. E ci restavo ancora per una notte, in quell’orribile albergo, soltanto perché volevo di nuovo assistere alla scena del Rosario. Ne ero anch’io affascinato, proprio come il cuoco. Ma alla catena della causalità, e della casualità, stava saldandosi un altro anello. Il pranzo trascorse come al solito. C’erano altri quattro al posto di quei quattro che il giorno prima erano al posto del cardinale e dei vescovi. Capii che don Gaetano, tenendo fissi il ministro e l’industriale, non so con quale criterio di precedenza o preferenza rinnovava ogni giorno i quattro commensali. Me li presentò. Nomi non ignoti, né a loro ignoto il mio. Uno dei quattro era presidente di un grosso ente di Stato, si era da poco dimesso da senatore per assumere quella presidenza. Una faccia acuta, volpina. Tutt’altro che sprovveduto, in fatto di patristica e di scolastica: e per tutto il pranzo, tra lui e don Gaetano, ci fu un rimbalzo di citazioni, come una partita di ping-pong. Alla fine, ero piuttosto interessato a Origene, a Ireneo e allo Pseudo Dionigi, ma in senso del tutto eterodosso. Alla Borges, tanto per intenderci. Leonardo Sciascia TODO MODO - 33 - Come la sera precedente, alla fine sciamammo tutti nello spiazzale. Andai a sedermi accanto al cuoco, che era già al suo posto. «Ci ha preso gusto anche lei» mi disse a modo di saluto. «Eh sì, è uno spettacolo straordinario«». «Impagabile: glielo dico io che un po’ lo pago. E una volta o l’altra lo pagherò a prezzo pieno: mi verrà una polmonite mi verrà». Si asciugò accuratamente con la salvietta the aveva in mano: faccia, nuca, testa, orecchie. «Lei non sa che inferno sono le cucine: e io vengo fuori a questa arietta senza le giuste precauzioni, per il da fare che ho dentro e per la fretta di non perdermi lo spettacolo fuori... Ma è una soddisfazione, Cristo, una grande soddisfazione: vedere tutti questi figli di puttana andare su e giù a recitare il Rosario...». «La Chiesa» dissi »dà delle soddisfazioni anche ai non credenti». «Forse è così. Ma io della Chiesa me ne fotto». «Ma com’è che si è trovato ad avere a che fare con questo albergo di preti?». «Per caso. Cioè: per inganno di un amico. Mi ha detto: sto male, va’ a sostituirmi per un paio di giorni. Invece si era trovato un altro posto, meglio pagato. Quando l’ho saputo, volevo piantar tutto. Ma don Gaetano... E poi, c’era questo spettacolo... Ma io a don Gaetano gliel’ho detto: un giorno o l’altro getterò un chilo di stricnina nella minestra, e chi s’è visto s’è visto». «E don Gaetano?». «Sa che cosa mi ha risposto, questo gran figlio di puttana?» ma mettendo nell’espressione ammirazione e devozione. «Mi ha risposto: figlio mio, quando sarà il giorno avvertimi, ché io salterò la minestra... Vede che tipo?... Ma oh, sta cominciando» e si assestò nella sedia. Stava cominciando, infatti. Il quadrato si mosse, mentre si levava la voce di don Gaetano «Nel nome del Padre, del Piglio e dello Spirito Santo. Amen». «Un angelo inviato dal Padre...». «Padre nostro che sei nei cieli…». «Ave Maria…». «Gloria al Padre...». «Il Padre fin dall’eternità…». «Il Padre dopo il peccato…». «Padre nostro…». «Ave Maria…». «Gloria al Padre...». «Salve, o Regina…». Leonardo Sciascia TODO MODO - 34 - Ora dalla voce di don Gaetano, ora da quella del coro, le preghiere si levavano nell’oscurità della notte: e tutto, le voci, il senso delle parole, quell’assurda marcia da animali in gabbia, quel battere e indugiare nella poca luce e il più veloce e spaurito andare verso il buio; tutto sembrava s’appartenesse a una evocazione, a un sortilegio: ma con quel tanto di mistificatorio e di grottesco che è nelle sedute spiritiche, per chi non ci crede. «Santa Maria». «Santa Madre di Dio». «Santa Vergine delle vergini». «Madre di Cristo». «Madre della Divina Grazia». «Madre purissima…». Mi affiorava il ricordo non delle parole latine di prima, ma di come quelle parole erano pronunciate dalle donne che d’inverno intorno al braciere, d’estate nel cortile, si raccoglievano a dire il Rosario, negli anni della mia infanzia. E quel ricordo aggiungeva grottesco al grottesco, e specialmente ricordando la «turris eburnea» che diventava burrea: quasi una promessa, per il paradiso, di pane imburrato, a me che da bambino piaceva. «Torre d’avorio». «Casa d’oro». «Arca dell’alleanza». «Porta del cielo». E don Gaetano aveva appena finito di dirlo, e stava levandosi il coro del «prega per noi» quando si sentì come uno stappo. Il quadrato era al margine dello spiazzale, nel punto più lontano dall’ingresso dell’albergo e da dove il cuoco ed io sedevamo. Si era appena ricomposto nel dietrofronte: ed ecco che tra la porta del cielo e il prega per noi quel colpo lo fermò e sospese per un attimo; e subito dopo lo scompose, lo centrifugò. Resto, fermo dov’era, don Gaetano. E dietro di lui, a dieci o quindici metri, una macchia chiara, più che una macchia una massa. Mi ci vollero una trentina di secondi, credo, perché quella massa prendesse la forma di un uomo caduto; quanti ce ne vollero perché don Gaetano, che era rimasto fermo come una statua a guardare verso l’albergo, si voltasse indietro e andasse verso il caduto. Lo vidi chinarsi e muoverlo. Il cuoco ed io simultaneamente ci alzammo e corremmo verso quel punto. Ci arrivammo che don Gaetano, un ginocchio poggiato a terra, la destra sospesa in aria, diceva «Ego te absolvo in nomine Patris, Filii et Spiritus Sancti». Ci guardò, si rialzò. «È morto» disse. Leonardo Sciascia TODO MODO - 35 - Era 1’ex senatore, presidente di quel grosso ente di Stato, che durante il pranzo aveva giocato alle citazioni con don Gaetano. Nella morte, la sua faccia aveva perduto l’espressione volpina e preso un che di fragile, come modellata in una fragile materia, e di dolorosamcote peotoso. Lo guardai bene, alla luce vacillante del mio accendisigari. Poi guardai don Gaetano e il cuoco. Impassibile, il pretaccio. E il cuoco sudava peggio che davanti ai fornelli. Tutti che erano scappati, ora tornavano. E nel loro convergere verso di noi c’era impazienza e cautela, la curiosità di sapere e vedere e la paura per quel che avrebbero visto e saputo. Si domandavano, e avvicinandosi a noi domandavano «Chi è? Ma che è successo? Ma come? Gli hanno sparato? Chi ha sparato?» febbrilmente. Finché fecero, intorno a noi e al morto, un cerchio compatto. Sgomitando ne uscii, seguito dal cuoco. Don Gaetano disse «Bisogna chiamare la polizia» e raccomandando di non toccare il morto, ne uscì anche lui, dirigendosi con passi lunghi e fermi verso l’albergo. Tornammo alle nostre sedie. Stranamente, ero tornato a una disposizione da spettatore: quasi mi lossi reso conto che il delitto era una puntata da happening, a rendere più movimentata e consona ai tempi quella incredibile recitazione del Rosario. Ma il cuoco era molto inquieto. «Meno male» mi disse con voce tremante «che stavo seduto con lei». «Perché, crede che ci avrebbero sospettato?». «Non si sa mai… Qualcuno da sospettare debbono trovarlo: e non lo cercheranno tra quelli... Le pare possano essere sospettati di avere ammazzato un fratello, e mentre si dicevano il santo Rosario per giunta?». «Ma non può essere stato che uno di loro». «Questo lo dice lei e lo dico io; ma la polizia comincerà a pensare a qualcuno di loro soltanto dopo che si sarà accertata che i camerieri, gli sguatteri, i contadini della zona, lei ed io non avevamo ragione al mondo per far fuori quel galantuomo... Accertati, dico: e vedrà come... Ma forse per lei avranno dei riguardi». «Anche perché» scherzai «non ho mai espresso l’intenzione di avvelenarli». «Non mi ci faccia pensare: perché lei sta scherzando, ma la polizia, se gli arriva all’orecchio una cosa simile, non mi molla più. La conosco, in; oh se la conosco…». «Ha avuto a che fare con la polizia?». «Sì, ma non per qualcosa che io ho fatto: per qualcosa che hanno fatto a me. Da derubato. Derubato del portafogli, da uno sconosciuto cui avevo dato un passaggio. Ho fatto la denuncia. E sa che hanno pensato?». «Simulazione di reato». «Appunto. Mi hanno torchiato per mezza giornata: sposato, sì; una relazione extra, no; giuoco, mai giuocato; nemmeno al lotto, nemmeno al lotto; debiti, neanche di una Leonardo Sciascia TODO MODO - 36 - lira; quanto avevo nel portafogli, qualcosa come centomila lire; esattamente, non lo so; impossibile, possibilissimo... E batti e ribatti su questo punto finché, esasperato, ho detto al maresciallo “mi dica lei quanto ha nel portafogli, esattamente”. Ci ha pensato un po’, ché non se l’aspettava, poi secco mi ha risposto “trentasettemilacinquecento”. E io, ingenuamente “vediamolo”. È successo il finimondo. Poi hanno chiamato mia moglie, e le hanno messo il dubbio che io mantenessi un’altra donna. Insomma: ho passato un guaio. Da derubato. Figuriamoci se vengono a sapere di quella mia frase... Ma don Gaetano mi conosce, e non gliela riferirà; se poi qualcuno gliela va a soffiare, sono certo che mi difende». «Ma si capisce» dissi: pentito di aver scherzato. Don Gaetano rivenne fuori. Si fermò sulla soglia, batté le mani a richiamo, poi a voce alta disse «Tutti qui». Lentamente tutti si avvicinarono. Don Gaetano disse «La polizia sta arrivando... Mi è stato raccomandato di non muovere il cadavere e di starne il più lontano possibile. E che nessuno lasci l’albergo, naturalmente, o se ne vada a letto: ché lo farebbero venir giù... Sedete tutti da questa parte, dunque: e cercate di ricordare quello che avete visto o sentito al momento del colpo o poco prima. Più sarete chiari e brevi nelle risposte, prima ci sbrigheremo». Di nuovo batté le mani, ma verso l’interno dove i camerieri stavano aggrumati «Portate un lenzuolo per coprire il morto; e accendete tutte le luci». La luce venne in tre ondate: un crescendo accecante. Al margine dello spiazzale, il morto apparve, dal mio punto di vista, in iscorcio, più morto; ma qualche momento dopo due camerieri gli nevicarono sopra un lenzuolo. La notte si popolò di fitte danze di moscerini, di gechi che strisciavano sui muri verso le lampade ora accese. Ne ebbi come la rivelazione di un orrore fino allora invisibile. Anche il silenzio che si dislagò mi parve fosse della qualità di quello in cui i gechi si muovevano. (Ho avuto sempre ribrezzo dei gechi: e coloro che ne sostengono l’utilità nell’ordine della natura, in quanto si nutrono di moscerini alle piante nocivi, debbono ammettere che il disordine se non nell’esistenza dei gechi è da riconoscerlo nell’esistenza dei moscerini: e che un miglior ordine sarebbe nella inesistenza e dei moscerini nocivi e dei gechi che li divorano). A un certo punto si levò, un poco tremula in contrasto con l’arrogante significato delle parole, la voce del ministro «Don Gaetano, ha detto alla polizia che qui ci siamo noi?». «Noi chi?» disse don Gaetano con ferma e fredda voce. «Ma noi… Noi tutti, insomma... Io, gli amici…». Il ministro era caduto nell’imbarazzo. Leonardo Sciascia TODO MODO - 37 - «Ho detto che c’è lei: sì» disse don Gaetano, Ma come dicesse: ho dovuto confessare che frequento cattiva compagnia. Mi piacque molto. E piacque anche al cuoco, che mi diede di gomito. Il ministro si afflosciò. La platea, poiché si stava disposti, guardando verso il morto, come in platea, ristette in silenzio. Poi don Gaetano disse «Non voglio nemmeno pensare che sia stato qualcuno di voi…». Tutti, improvvisamente, lo pensarono, che era stato qualcuno di loro. A parte, si capisce, l’assassino. Si guardarono l’un l’altro, quasi che ognuno potesse subito riconoscerlo nel proprio vicino, l’uomo che aveva ucciso. «Penso» continuò don Gaetano «che avrà sparato qualcuno dal bosco: magari per giuoco». «Ghe gran figlio di...» mi sossurrò il cuoco, mentre dalla platea si 1evava un coro di approvazione. Non si era ancora spento che arrivò, rumorosamente, la polizia. «Bene bene» disse il commissario a colpo d’occhio: noi tutti da una parte, il morto bene isolato: per come aveva raccomandato. Si avvicinò a don Gaetano e gli strinse la mano. «Caro commissario» salutò don Gaetano. «Che guaio» disse il commissario. E si diresse verso il morto seguito da don Gaetano. Istintivamente mi alzai e andai anch’io; e il cuoco con me. Il commissario sollevò il lenzuolo, guardò, sospirò; lo lasciò ricadere. «Chi è?» domandò a don Gaetano. «Il presidente della Furas, l’ onorevole Michelozzi… Eletto senatore, alle ultime: ma si è dimesso per assumere la presidenza della Furas. Ottima persona: colta, zelante, onesta…». «E se ne può dubitare?» disse il commissario. Ma ci mise una vibrazione d’ironia, come a dire: anche se volessi, non potrei. «Già» disse don Gaetano, riflettendo quella vibrazione come un raggio su uno specchietto e rimandandola al commissario col senso di: non c’è niente da fare, mio caro, bisogna che tu ci strida. «Il personale dell’albergo?» domandò il commissario. Il cuoco mi diede un colpo di gomito alle costole. «A posto» rispose don Gaetano. «Niente da dire, su nessuno». «E qui nella zona?... Voglio dire: qualche contadino che ce l’abbia con lei, con l’albergo... Non so...». Leonardo Sciascia TODO MODO - 38 - «Nessuno ce l’ha con me» disse don Gaetano, risentito. «E i contadini, quei pochi che ancora ci sono, hanno avuto dei vantaggi, dall’albergo: vendono come di pollaio, del loro pollaio, le uova che vanno a comprare in città, i formaggi, le verdure... La gente viene qui, e quando se ne va si illude di portarsi a casa le buone e sane cose della campagna». «Ma a volte, qualche fanatico…». «Lei allude alle storie che ci sono state quando ho inglobato l’eremo dentro l’albergo... Ma no, tutto passato: i grandi guadagni fanno scomparire i grandi princìpi, e i piccoli fanno scnmparire i piccoli fanatismi». «Ma una ragione deve pur esserci... Cioè, lasciando stare la ragione: qualcuno deve aver sparato. Perché per sparare hanno sparato, no?». Si voltò anche a me e al cuoco, aspettando conferma. «Pare di sì» disse don Gaetano. «E chi?». «Ma questo, caro commissario, penso che toccherà alla polizia di scoprirlo». «Eh sì» disse il commissario, con un sospiro di rassegnazione «tocca alla polizia, certo che tocca alla polizia... Solo che la polizia, qui, quando hanno sparato non c’era…». «E noi invece si, lei vuol dire... Ma mi creda: siamo nelle stesse condizioni della polizia che non c’era; almeno tutti quelli che stavamo intruppati a recitare il Rosario». Il cuoco di nuovo mi diede di gomito. «Tranne l’assassino» io dissi. Don Gaetano mi guardò: al suo solito, come se non mi vedesse. E con profondo stupore, quasi che la mia risposta l’avrebbe precipitato nel dolore o sollevato nella speranza «Ma lei crede sia stato uno di noi, uno di quelli che recitava il Rosario con me» calcando sul con me «a uccidere?». «Mi dispiace: ma credo di sì». «E perché?». «Perché ho questa convinzione? Innanzitutto perché amando tirare di pistola e di fucile ho, diciamo, un certo orecchio: e il colpo l’ho sentito opaco, attutito; come se l’arma fosse stata appoggiata al bersaglio, al corpo. E mi sentirei di scommettere che gli hanno sparato alle spalle e che la giacca, nel punto in cui è stato colpito, sarà bruciacchiata». «Non possiamo verificare subito, bisogna aspettare il procuratore e il medico» disse il commissario. Leonardo Sciascia TODO MODO - 39 - «E poi?» don Gaetano domandò con la condiscendenza dell’esaminatore che ha già deciso di bocciare il candidato. «E poi, ma questa è una illazione, penso che se a tirare fosse stato qualcuno da fuori, da lontano, dal margine del bosco, i colpi sarebbcro stati più di uno: due o tre, per il divertimento di tirare sul mucchio». «E se a qualcuno, appostato ai margini del bosco per cogliere il coniglio o la lepre, fosse inavvertitamente scappato un colpo?». «Questo tipo di caccia» spiegai «si fa al chiaro di luna, e la luna non c’è. Si fa col fucile, e invece abbiamo sentito un colpo di pistola». «L’ha sentito lei, il colpo di pistola. Io ho sentito un colpo che poteva essere di pistola o di fucile o di stappo di champagne» precisò don Gaetano. «Non è stato ammazzato da un tappo di champagne» disse il cuoco. Mi sorprese che don Gaetano non reagisse all’ironia del cuoco. Disse «Già, già...» e scomparve. Arrivò il procuratore, e subito dopo il medico. Il procuratore ebbi l’impressione di averlo già incontrato: ma non mi riuscì di ricordare quando e dove. Era come quando si incontra uno che abbiamo conosciuto grasso, ed è magro; o magro, ed è grasso. Ma il procuratore non era magro ne’ grasso. Quando il suo occhio cadde su di me, dopo quella che nel loro gergo si dice ricognizione del cadavere, notai che nella sua mente stava avvenendo quel che avveniva nella mia: dalla fissità dello sguardo, dal movimento della mano sul mento. E quando, ad un certo punto, sentì dal cuoco il mio nome, guardandomi come chi è arrivato per primo alla soluzione di un problema su cui l’altro annaspa, mi disse «Ti ricnrdi? Prima b, anno 1941... O 42?». «41 ... Sì, ecco, mi ricordo: Schembri». «Scalambri» precisò. «Già, Scalambri…». «Dopo più di trent’anni... E credo ti avrei riconosciuto subito, in un altro posto: ma qui!». «Sei meravigliato di trovarmi qui. E anch’io, per la verità, di trovarmici…». Mi prese familiarmente a braccetto. «Raccontami, raccontami…». Cominciai a sentirmi in disagio. Ho sempre evitato, accuratamente, l’incontro sia coi vecchi compagni di scuola sia con le donne amate nella giovinezza. L’incontro, dico, a distanza di anni. E ora, al disagio di averne incontrato uno dopo più di trent’anni, si aggiungeva quello del luogo in cui mi trovavo, della circostanza, della fonziune che il mio vecchio compagno vi assumeva, della familiarità con cui mi trattava. L’essere stati per alcuni mesi nella stessa aula, non significava poi tanto, in ordine alle affinità, agli affetti. Due soli compagni avevano avuto importanza nei miei anni di scuola: uno che avevo poi visto sempre, un altro che non ho più incontrato. Leonardo Sciascia TODO MODO - 40 - Eravamo, tutti e tre, a basso livello di rendimento scolastico; ma leggevamo tanti libri che non avevano niente a che fare con la scuola, andavamo ogni sera al cinema, ci confidavamo amori e disamori... Scalambri, per quanto ricordavo, era invece dei bravi; e dei bravi che non passavano, da copiare, la versione dal greco o dall’italiano in latino (e quest’ultimo era il compito che più odiavamo, come la più insensata delle vessazioni). Non avevo niente da raccontargli. Volevo invece, con lui, parlare di quel delitto. Ma appena tentai di entrare in argomento, mi sfuggì. Noncurante, distratto: o, per regola e abitudine professionale, fingendo; o perché realmente il suo interesse al caso, al problema, non riusciva a disgiungersi dal fastidio di essere stato chiamavo a quell’ora, in quell’ambiente di preti e nomini politici che gli imponevano una cautela di indagini, uno scrupolo, una meticolosità al di là delle sue abituali (non potevo dubitarne, mettendo sempre meglio a fuoco il ricordo di com’era a scuola). Comunque, a interrompere il nostro colloquio, si avvicinò il ministro. Scalambri lo riconobbe. Lasciò il mio braccio: e da quel momento in poi mi dimenticò. Il ministro fu ossequioso fino all’estremo. E non meno il mio vecchio compagno. «Signor procuratore» disse il ministro dopo i più arzigogolati, e contraccambiati, conveuevoli «lei, immagino, vorrà sentire le impressioni di ciascuno di noi, poiché nient’altro che d’impressioni credo che si sia in grado di riferire... Ma siamo tanti, come vede... E non si potrebbe, mi permetto di chiedere, rimandare a domani mattina, all’ora che a lei piacerà di stabilire...?». «Ma certo, certo...» acconsentì precipitosamente Scalambri. «La ringrazio» disse il ministro. Restò un momento assorto, a scrutare la faccia di Scalambri come fosse una mappa su cui stentava a trovare un nome familiare, un paese conosciuto. Poi sospirò lungamente; e in coda al sospiro lanciò l’esclamazione «Che pasticcio». «Non so nolla» disse Scalambri, guardingo. «Tranne, si capisce, quel poco che mi ha detto il commissario: l’identità del morto, il colpo di arma da fuoco…». «Un uomo di una correttezza, di una dirittura morale, di una coerenza…». «Esemplari» completò Scalambri. «Davvero esemplari» disse il ministro: come se senza il suo davvero l’esemplarità corresse il rischio di sfaccettarsi d’incredibilità e d’ironia. «Appunto perciò» osservò Scalambri «la fartenda ha tutte le possibilità di diventare, come lei ha ben detto, un pasticcio... Come si fa, non dico a trovare, ma a immaginare un movente?». «Eh sì, ha ragione: non si può nè trovare né immaginare... Mi permetto di anticipare che non c’è stato». Leonardo Sciascia TODO MODO - 41 - «C’è sempre, signor ministro, c’è sempre: futile, folle, invisibile all’occhio della normalità; ma c’è sempre». «Giusto» ammise il ministro «giusto: ma futile, ma folle... Non può che essere stato vittima della follia, il povero caro Michelozzi». E il nome gli uscì come in un singhiozzo. «Un uomo insostituibile» disse Scalambri, ma tanto per mostrare al ministro che partecipava al suo dolore. «Insostituibile» fece eco il ministro; e mi suscitò nella memoria altra eco, lontanissima: del gatto che nel gran libro di Collodi ripete sempre l’ultima parola della volpe. «Pensi» continuò «che aveva lasciato il mandato parlamentare per assumere la presidenza della Furas». «Nobile sacrificio» disse Scalambri. Già dalle prime battute mi pareva di stare a sentire del Ionesco. Ma il troppo è troppo: e poiché i due si assorbivano l’un l’altro da far pensare a una coppia sulla panchina davanti Saint-Germain, avviticchiata mentre intorno scorre l’ora di punta, discretamente mi allontanai. Ritrovai il tuoco, ancora inquieto. Lo iucoraggiai, gli diedi la buonanotte: e mi ritirai nella mia camera, dove fino alle tre del mattino continuai a sentire il brusio, che ogni tanto si impennava in voci impazieuti, dei poliziotti. Mi svegliai alle nove. E dapprima con la sensazione di aver sognato quel che la sera prima era accaduto. Ma ne presi subito coscienza e conferma aprendo la finestra: c’erano poliziotti nello spiazzale, automobili grigioverdi della polizia; e dove l’onorevole Michelozzi era caduto, c’era una sinistra sagoma disegnata col gesso e una macchia di un rosso terroso, nella posizione e forma dei polmoni, dentro la sagoma. Degli ospiti dell’albergo, non se ne vedeva uno: se ne stavano ancora in camera, come me, o continuavano i loro esercizi? Quando uscii dalla camera, il silenzio dei corridoi mi fece pensare a un convento; ma avvicinandomi all’ascensore, alle scale, sentivo un mormorio indistinto e continuo, profondo, quasi sotterraneo. Erano tutti nell’atrio, come stivati. In gruppi che sembravano ghirigori, nella continuità tangenziale che si stabiliva tra l’uno e l’altro e infine tra tutti, serpeggiando. Era come un disegno di Steinberg. Percorrendo i ghirigori, appresi che il procuratore, nello studio di don Gaetano, aveva già cominciato a interrogare. Aveva chiesto che si facessero avanti, per primi, Leonardo Sciascia TODO MODO - 42 - quelli che erano nella stessa fila dell’onorevole Michelozzi, quando l’onorevole Michelozzi, dopo lo sparo, era caduto: ma nessuno si era fatto avanti. Il procuratore aveva espresso, con misurate parole, la sua riprovazione: e totti gli davano ragione e riprovavano. «Com’era possibile che uno non si ricordasse se aveva o no a lato il povero Michelozzi?». Ma tant’è che questa domanda se la facevano anche quelli che dovevano averlo avuto vicino: e dunque o effettivamente non se ne ricordavano o si schermivano; a parte colui che aveva sparato, che aveva tutte le ragioni per nascondersi. Comunque, il procuratore aveva cominciato a interrogare per ordine alfabetico: e stavano lì ad aspettare la chiamata anche quelli della zeta, cui ad andar bene sarebbe toccata a tarda sera. Scalambri era stato tra i primi della classe, sarà magari stato tra i primi nel concorso per magistrato, ma nel mestiere d’inquirente non era certo un’aquila. Avrebbe dovuto cominciare da me e dal cuoco, che eravamo fuori; e poi procedere a una ricostruzioine del quadrato, facendo appello alla memoria di ognuno. Così aveva invece creato un certo panico, e tutti cercavano di defilarsi: propriamente. Mi avvicinai alla porta dello studio di don Gaetano. C’era a guardia un poliziotto, che credette di prevenirmi dicendo «Mi dispiace, ma deve aspettare che il signor procuratore la chiami». Io non avevo avuto l’intenzione di passar quella porta, ma l’impedimento me la fece venire. Tirai fuori il taccuino e vi disegnai, al modo di Steinberg, il quadrato degli oranti; sotto scrissi: «bisogna ricostruire il quadrato». E affidai il messaggio al poliziotto. «Glielo darò quando mi chiama» promise il poliziotto. Lo chiamò qualche minuto dopo. E vennero fuori in tre, dallo studio di don Gaetano: Scalambri, il poliziotto e l’uomo che era stato appena interrogato. Costui si tuffò subito tra i suoi amici come fuggendo da Scalambri: per mimetizzarsi, per sparire. Il poliziotto mi indicò a Scalambri, ma questi veniva già verso di me agitando il foglietto col disegno e dicendo «Me lo devi firmare». La richiesta, quasi gridata, ebbe l’effetto di far tacere tutti. Si voltarono verso Scalambri aspettandosi, credo, di vedergli in mano un assegno: ed ebbero la sorpresa di vedere invece un disegnino. Ero sorpreso anch’io, ma diversamente. Più che abituato, stufo di setirmi chiedere una firma - generalmente da parte di camerieri - per ogni scarabocchio che - generalmente aspettando, e aspettando una donna - meccanicamente, per impazienza, mi trovavo a fare su una salvietta di carta o un giornale, la richiesta di Scalambri mi parve toccasse l’assurdità, la follia. Mi venne da rispondere come una volta Picasso a una ragazza che voleva le firmasse un disegno che le aveva appena regalato: «eh no, mia cara: questo disegno non vale niente, ma la mia firma vale un milione di franchi»; ma mi contenni. Dissi «Ma no, è una cosa da niente, una cosa non mia: sembra di Steinberg o di Flora; te ne farò uno con tutti i sacramenti». L’espressione divertì Scalambri. «Con tutti i sacramenti: vedo che ti conformi all’ambiente». E poi «Ma sul serio, me lo prometti?». «Te lo prometto». «Oggi?». «Oggi». Rassicurato, Leonardo Sciascia TODO MODO - 43 - ma ad ogni buon conto mettendosi il tasca il foglietto, mi domaodò «Vuoi dice che bisogna far disporre questa gente così come era ieri sera per la recita del Rosario?». «Esattamente». «Hai ragione: interrogandoli uno a uno non si cava niente; già ne ho passati sei o sette: non ricordano nemmmeno il loro nome». Si voltò al poliziotto e gli ordinò di cercare il commissario; poi batté le mani a chiedere l’attenzione di tutti gli ospiti. Quando l’ottenne, disse «Signori, mi sono reso conto che l’interrogarvi uno ad uno è completamente inutile; farò perciò un tentativo per risvegliare la memoria di alcuni, nella speranza che altri siano sollecitati o costretti a ricordare... Siete pregati di uscire fuori e di disporvi come ieri sera, quando avete cominciato a recitare il santo Rosario». E disse la parola santo così ambiguamente da valere per quelli un «sono dei vostri» e per me tutta la sua viscerale irrisione al Rosario e a coloro che lo recitavano. Ci fu una certa agitazione, qualche impennata di protesta indiretta e che Scalambri finse di non sentire. Ma il commissario, che intanto era arrivato, cominciò coi poliziotti a dare esecuzione all’ordine: e si muovevano come i cani dei pastori quando debbono fare entrare il gregge nel recinto. Tutti fuori, finalmente; e tuoi intorno a don Gaetano, che era improvvisamente apparso. Come la sera prima, solo che il mutamento da cerchio a quadrato sarebbe stato meno spontaneo e più difficile. «Immagino» mi sussurrò Scalambri «che tu non stessi intruppato con loro: e dunque sei il solo che può aiutarmi». «Non il solo; c’era il cuoco, seduto accanto a me». «Portatemi qui il cuoco» gridò Scalambri. Glielo portarono, stravolto di terrore che mi pentii di averlo tirato in ballo. Scalambri, sul gradino dell’ingresso, era come un direttore d’orchestra sul podio. «Voi due» al cuoco e a me «ai posti dove eravate ieri sera... Don Gaetano» più morbidamente «cerchi lei di aiutarmi: chi stava con lei in prima fila, quando siete partiti?». «Sua eccellenza il ministro, sicuramente: e sicuramente il povero onorevole Michelozzi». «Michelozzi stava dunque in prima fila: almeno questo, finalmente, lo sappiamo» disse Scalambri. «E poi, cerchi di ricordare chi c’era ancora, in prima fila... Quanti erano, sulla prima fila?» rivolgendosi a me e al cuoco. «Sette otto» io dissi. «Sette otto» mi fece eco il cuoco. «Sette otto» ripeté Scalambri. E implorante «Don Gaetano, eccellenza: cercate di ricordare». «Vediamo: io stavo alla destra di don Gaetano» disse il ministro «e alla mia destra stava... Chi stava alla mia destra?». Leonardo Sciascia TODO MODO - 44 - «Io» gridò uno; e alzò la mano. «Benissimo. Prenda nota, commissario: il professor Del Popolo alla destra di sua eccellenza... E alla sua destra, professor Del Popolo?». «Alla mia destra... Dio mio, chi si ava alla mia destra?». «Io». «Prenda nota: l’onorevole Frangipane alla destra del professor Del Popolo... E alla sua destra, onorevole Frangipane?». «Alla mia destra, l’ingegnere Lodovisi» rispose sicuro l’onorevole. «Già» disse l’ingegnere facendosi avanti con la mano alzata. «E alla sua destra, ingegnere Lodovisi?». «Alla mia destra, nessuno». Quasi felice. «Alla sinistra di don Gaetano» disse Scalambri con un sospiro che diceva rassegnazione per sé e compianto per il defunto di cui stava per fare il nome «c’era dunque il povero onorevole Michelozzi. Ma chi stava alla sinistra di Michelozzi?». Galò un terribile silenzio. Poi tremula si alzò una voce, esitante una mano «Forse... Non so... Mi pare…». «L’avvocato Voltrano» constatò Scalambri. «Sì, però...» disse l’avvocato. «C’era o non n’era?». «Sì, c’ero. Però…». «Però?» Scalambri era diventato duro, brusco. «Niente, così: un’impressione». «Che impressione?». «L’impressione, ecco, di non averlo avuto sempre a lato». «Come sarebbe?» Sralambri dava ora nel feroce. L’avvotato Voltrano sembrò trovare la forza dell’innocenza. «Sarebbe che ho questa impressione: di non averlo avuto sempre a lato». «Ah» fece Scalambri: sospettoso, ironico. «Naturalmente» mi trovai a dire. Senza volerlo. Scalamri mi fulminò di un’occhiata. Non fosse stato per la passata dimestichezza e per il disegno che gli avevo promesso, certo mi avrebbe fatto cacciar via. Si calmò e rassegnò a un «Naturalmente che?». Mi alzai, mi avvicinai a lui, me lo tirai in disparte. «Naturalmente, dico, perché i casi, come sempre, sono due: o l’avvocato Voltrano ha fatto fuori Michelozzi e, nel timore che presto o tardi scopriremo che gli stava alla sinistra, mette le mani avanti fingendo di avere il dubbio che qualcuno si sia insinuato tra lui e Michelozzi; o l’avvocato è innocente, e sta dunque dicendo la verità: che qualcuno ha manovrato in Leonardo Sciascia TODO MODO - 45 - modo da spostarsi cautamente dalla propria fila per trovarsi, quando giungessero nella zona più buia, accanto a Michelozzi... Trova un altro, di altra fila, che abbia lo stesso dubbio dell’avvocato, e cioè di non aver avuto a lato, ad un certo punto, quello che gli era vicino alla partenza: e avrai in mano l’assassino». Tanto era sensato, quel che dicevo, che Scalambri se ne urtò. Da primo della classe. «Ma tu» mi disse con un sorriso di compatimento «sei un lettore di romanzi polizieschi o addirittura li scrivi?». «Li scrivo e li pubblico con pseudonimo» risposi con una serietà che lo lasciò perplesso. «Comunque, questo non è un romanzo» disse tornando ai suoi inquisiti. Ma da quel momento, si mosse sulla linea che gli avevo tracciata. Tutta la mattinata passò così: chi c’era alla sua destra, chi alla sua sinistra, se alla sua destra o alla sua sinistra ognuno avesse avuto sempre la stessa persona. Tranne quattro, con l’avvocato Voltrano cinque, tutti assicurarono che nessun mutamento, nessuna sostituzione, era avvenuta alla loro destra o alla loro sinistra. Certo, non potevano giurarlo sul Vangelo: il passaggio dalla zona illuminata alla zona buia, l’intensa (dicevano) partecipazione al Rosario, il fattu che non potevano nemmeno immaginare tra loro il delitto, e che si manifestasse proprio nel mnmento di quelle umili e concordi preghiere (enciclica Supremi Apostolatus di Leone XIII, citata dal ministro) che erano onorifico distintivo della cristiana pietà: tutto ciò aveva fatto sì che la loro memoria pochissimo o quasi nulla registrasse di quello che ora il magistrato pretendeva che ricordassero. In quanto ai cinque che avevano qualche dubbio sulla permanenza ai loro lati delle persone che sicuramente c’erano quando era cominciata la recita del Rosario, tutti si trovavano nella condizione dell’avvocato Voltrano: fugaci impressinni, e null’altro. Nè sapevano o volevano indicare chi ad un certo punto si erano trovati a lato invece del compagno con cui erano partiti. Scalambri era furioso. Per come gli avevo suggerito, era riuscito, dopo quattro ore, a ricostruire il quadrato (che non risultò poi un quadrato, ma un trapezio isoscele); aveva trovato cinque persone che vagamente ricordavano di non avere avuto sempre a lato, sulla destra o sulla sinistra, la stessa persona: ma la sua inchiesta era al punto di partenza, nè si intravedeva la possibilità che almeno gli si materializzasse davanti un indiziato qualsiasi, magari da prosciogliere poi in istruttoria. A tal punto era furioso che, davanti al ministro e a don Gaetano, si lasciò andare a beffardi apprezzamenti sulla fede e le pratiche di fede di tutti quei galantuomini che non ricordavano. Leonardo Sciascia TODO MODO - 46 - Il ministro si rodeva, mordeva il freno. Calmissimo invece don Gaetano: e non diceva parola. Soltanto a tavola, dopo la preghiera e la benedizione, sollecitato da Scalambri, che stava alla sua sinistra (a destra io), cominciò a disgelarsi: ma evitando, con impareggiabile perizia, di avvicinarsi al delitto, tutte le volte che Scalambri tentò di condurvelo. Sapeva, secondo me; o almeno intuiva. E anche secondo Scalambri, che quando ci alzammo da tavola mi suisurrò all’orecchio «Se questo pretaccio parlasse...» in un rantolo di rabbia da mastino che non può addentate la preda. «Che facciamo, signor procuratore?» si avvicinò a quel punto a domandare il commissario. «E che vuoi fare?» disse Scalambri. «Restiamo qui, ospiti dell’albergo di don Gaetano: che esca qualcosa o non esca nulla, altro non possiamo fare che star qui, ad osservare, a spiare». «Posso parlare?» domandò il commissario accennando con l’occhio alla mia presenza. «Parli». «Li arresterei tutti, don Gaetano compreso». «A chi lo dice, caro commissario, a chi lo dice...». Con aria sognante. «Tanto» incalzò il commissario «sono tutti nella condizione di quel tale che quando gli lessero la sentenza di condanna disse “per tanti che ne ho fatto mai mi avete incastrato, per questo che non ho fatto mi state condannando”. Non le pare?». «Mi pare, caro commissario, mi pare...». E da sognante diventando imbambolato, e in un barlume accorgendosene, Scalambri impastò «Ma oh, questo vino fa scherzi... A letto, me ne vado a letto» e si allontanò malfermo, lasciandomi col commissario. «E anche lui» borbottò il cummissario guardando Scalambri allontanarsi. Anche lui da arrestare o anche lui che si metteva a complicare le cose, avendo bevuto più di quanto doveva, dentro una situazione che richiedeva lucidità e prontezza. Ma subito colto da preoccupazione, per la familiarità con cui Scalambri ed io ci trattavamo, volle correggere e addolcire. «Anche lui, dico, come me: ha fatto un certo effetto anche a me, questo vino... E si sa: dove c’è prete c’è buona cantina». «Don Gaetano è un intenditore» dissi per stuzzicarlo. «Un vero intenditore». «Non solo di vini: di tutto». «Anche di delitti?». «Di delitti in genere, non lo so. Certo, in confessione, fogne aperte ne ha viste... Ma guardi: mi giuocherei i..., insomma: sarei disposto a scommettere qualunque cosa, che di questo delitto qualcosa ha capito, qualcosa sa». «Ne sono convinto anch’io». Il commissario passò a un tono inquisitorio. «Lo conosce bene?». Leonardo Sciascia TODO MODO - 47 - «Non credo ci sia uno che possa conoscerlo bene». «Già» approvò malinconicamente. «È un uomo straordinario». «Straordinario». «Terribile». «Terribile». «Molto imstelligente». «Molto intelligente, sì; terribile; straordinario... Ma guardi: se lo avessi tra le mani per ventiquattro ore, ad interrogarlo come dico io, come so io, don Gaetano vomiterebbe l’anima sua, se anima ha... E non pensi, per carità!, a maltrattamenti, a torture... Lo farei soltanto scendere dal piedistallo, gli farei soltanto sentire che per me lui sta alla pari del ladro di galline, del debosciato pescato coi suoi tre grammi di eroina in tasca... Quando uno che si crede potente entra in un posto di polizia e si sente ordinare di togliersi le stringhe dalle scarpe e la cintura dai pantaloni, crolla, mio caro amico, crolla che lei non se lo immagina nemmeno». «Anche don Gaetano?». «Anche don Gaetano, e il papa, e domineddio... Provi a immaginare la scena: il posto di polizia, una stanza squallida come la mia, quel tipico odore che Gadda fa sentire così indelebilmente e che assale le narici ogni volta che si parla di polizia (e lo sento anch’io nonostante gli anni di assuefazione); dietro la scrivania il commissario che non si alza, che non fa il minimo gesto non dico di ossequio ma di saluto; il brigadiere in piedi, che con indifferenza o addirittura disprezzo dice “signor Montini, si tolga le stringhe dalle scarpe e la cintura dai pantaloni”... La fine, mio caro amico, la fine». «Mi piace di più immaginare la scena con domineddio al posto del papa». «La immagini, la immagini…». Si allontanò sorridente ma subito tornò indietro preoccupato. «Ma oh, mi raccomando: questo è uno sfogo che ho fatto a lei in confidenza, perché so che lei la pensa come me». Sorridendo d’intesa, e come per giuoco, domandai «E come la pensiamo, noi due?». «La pensiamo che zac». E mosse la mano in semicerchio: a mietere, a decapitare. E di nuovo sorridente, si allontanò. Per la verità, da anni non mi avveniva di pensare che - zac - ci fosse da mietere, da decapitare; e che un simile pensiero o vagheggiamento, in me spento, tanto rigogliosamente germogliasse in un commissario di polizia, anche se celato, non avrei creduto. Ma tante cose avevo perso di vista; di tanti mutamenti non mi ero accorto, di tante novità. E non soltanto io: anche la gente che incontravo ogni giorno era nella mia stessa condizione. Ministri, deputati, professori, artisti, finanzieri, industriali: quella che si suole chiamare la classe dirigente. E che cosa dirigeva in concreto, Leonardo Sciascia TODO MODO - 48 - effettivamente? Una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili d’oro. Rimuginando desolatamente sulla ragnatela, sul filo d’oro cui ero appeso, e come uno scostarsi di rami, un colpo di vento, potevano facilmente devastarla (e mi ero fermato davanti a una ragnatela che brillava argentea, non aurea come la nostra, tra i rami di un nocciolo: e scostai uno dei rami cui era attaccata, lo curvai verso di me per poi lasciarlo andare come balestra; e vidi i fili d’argento spezzarsi e i ragni andarvi giù e su come pazzi), mi ero avviato verso la radura dove negli altri giorni le donne prendevano sole. Non c’erano. Andai oltre di un centinaio di metri: e improvvisamente mi accorsi di don Gaetano che, seduto su una pietra rotonda, una mola di antico frantoio o mulino, mi guardava fissamente ma, come al solito, dandomi l’impressione che non mi vedesse. Mi avvicinai: e più sgradevole e pungente ebbi l’impressione che non mi vedesse, che non volesse vedermi. Mi venne perciò di rivoltarmi, di essere con lui sgradevole e pungente. «Qualcuno le ha rivelato in confessione di aver commesso il delitto o di aver testimoniato il falso?». «Si sieda» disse don Gaetano indicandomi il posto accanto a sé, sulla mola. Smontato, cercai di resistere. Recitai «Nessuno può saper da chi sia amato quando felice in su la ruota siede». Ma mi calai accanto a lui, sulla pietra fresca, umida come se trasudasse. Il silenzio era vasto, reso ancora più vasto e consistente da un lontano orizzonte di voci, motori, cani che abbaiavano. Facciamo una gara di silenzio, mi dissi: ché la campagna, quella campagna, mi riportava all’infanzia, ai giuochi; tra cui erano quelli, stanchi dei più movimentati, del non parlare, del non ridere, dello stare ad occhi chiusi. Sapevo però che l’avrei persa. Infatti, dopo un po’ domandai «Che gliene pare, di come conduce l’inchiesta il mio amico Scalambri?». «Ah, è un suo amico?». «Per niente, l’ho detto per come si usa dire: siamo stati compagni al liceo, non lo vedevo da parecchi anni, nemmeno sapevo che fosse entrato in magistratura... Crede che arriverà a un risultato?». «E lei?». «E come vuole che ci arrivi, poverocristo, indagando dentro questa specie di congregazione?». «Non dica poverocristo: di poverocristo ce n’è uno solo, ed è il Cristo... E sbaglia di grosso a credere che questa sia una specie di congregazione: è un canestro di vipere». Leonardo Sciascia TODO MODO - 49 - «Si stanno mordendo tra loro?». «E non se ne accorge?». «Non ho l’occhio così esercitato da accorgermene... In ogni caso, non si morderanno a beneficio del povero Scalambri». «E chi lo sa? Basterà, forse, tirarle fuori dal canestro e vedere chi ha meno morsi». «E chi ne ha di meno è colpevole, immagino». «Immagini quello che vuole». «E lei?». «Io che?». «Lei non farà niente perché Scalambri risolva il problema?». «Il problema è di Scalambri. Non può e non deve essere mio». «Ma la giustizia, la colpa, l’espiazione...». «No». Fermamente. Poi, come estraendo le parole da una remota lontananza, in uno stato di divinazione «Veda: credere che Cristo abbia voluto fermare il male è l’errore più vecchio e più diffuso del mondo cristiano. “Dio non esiste, dunque nulla ci è permesso”. Queste grandi parole, nessuno ha mai veramente tentato di rovesciarle: piccola, ovvia, banale operazione. “Dio esiste, dunque tutto ci è permesso”. Nessuno, dico, tranne Cristo. E nella sua vera essenza, questo è il cristianesimo: che tutto ci è permesso. Il delitto, il dolore, la morte: crede sarebbero possibili, se Dio non ci fosse?». «Dunque il trionfo del male…». «Non il male, non il trionfo del male: bisognerebbe decollare da queste parole, dalle parole... Eppure non abbiamo che parole... Bisognerebbe entrare nell’inesprimibile senza sentire la necessità di esprimerlo... Ma lei, capisco, non sa che farsene dell’inesprimibile; e dunque scendiamo... Scendiamo, ecco, alle antiche accuse, alle antiche difese. A Tertulliano, per esempio, che tanto disperatamente quanto inutilmente tentò di difendere i cristiani dall’accusa di essere totalmente sterili nella vita pubblica: “Pratichiamo anche noi il foro, i mercati, i bagni, i negozi, i magazzini, gli alberghi e ogni altro vostro commercio; con voi coabitiamo nel secolo...”. Giustissimo: solo che per noi il secolo, il mondo, è ben altra cosa. È l’orlo dell’abisso: dentro di noi, fuori di noi. L’abisso che invoca l’abisso. Il terrore che invoca il terrore. Perciò voi, giustamente, ci temete: e aveva torto Tertulliano a chiedersi di non temerci, a rassicurarvi; mentre aveva ragione a concludere che nella misura in cui voi ci condannate, Dio ci assolve». «Voi chi?». «Voi che vedete il secolo, il mondo, regolato dal foro; e il foro da Dio, anche se chiamate Dio con altri nomi». Leonardo Sciascia TODO MODO - 50 - «E scendendo ancora, lei che cosa mi dirà? Che di questo omicidio accaduto qui, tra i suoi ospiti; del fatto che uno dei suoi ospiti è stato ammazzato e che un altro, assassino, molto probabilmente non pagherà, a lei uon importa nulla... Mi dirà questo?». «Potrei anche dirglielo. Ma sto soffrendo». «E perché?». «Perché c’è una parte di me ancora esposta, ancora scoperta; ancora vulnerabile, se vuole». «E non è la parte migliore, mi pare di capire». «Ecco che lei torna alle parole che decidono, alle parole che dividono: migliore, peggiore; giusto, ingiusto; bianco, nero. E tutto invece non è che una caduta, una lunga caduta: come nei sogni...». L’ultima parola restò come imbevuta dall’aria, dagli alberi, da me stesso: sicché quando mi ritrovai solo, seduto su quella pietra rotonda, intorpidito, mi parve di essere stato colto per un momento dal sonno e di aver sognato; e forse più che per un momento. Mi alzai e mi incamminai verso l’albergo. E già prima di arrivarci, dai rumori, dalle voci, capii che qualcosa di nuovo era accaduto. Era accaduto che l’avvocato Voltrano, volando, si credeva, dalla finestra della sua camera, all’ottavo piano, era andato a spiaccicarsi su un mucchio di mattoni e tegole: dietro l’albergo, dalla parte su cui davano le cucine, Il cuoco, che stava a sonnecchiare su una sdraio, si era svegliato al rumore: e dapprima non vide, ché da sdraiato non vedeva tutta la superficie del mucchio; poi, vedendo qualche mattone ancora scivolare, alzandosi scoprì quel corpo in pigiama che, a faccia sotto, ancora strattava: e diede un tale grido che tutti, anche quelli che avevano camera dall’altra parte, lo sentirono. Lo sentì anche Scalambri, attraverso la fitta nebbia del sonno da vino: ed era lì, ora, dalla parte delle cucine, ormai ben sveglio, arrabbiatissimo, vociante. Pallido, il mento che gli tremava, il cuoco era circondato da aiutanti e sguatteri; uno dei quali, di tanto in tanto, gli porgeva un boccale di vino. Il cuoco lo prendeva a due mani, ché con una non ce la faceva per il tremore, beveva un breve sorso e lo restituiva. Quando il commissario se ne accorse, gridò che stavanso ubriacandoglielo: e a lui serviva con la mente netta. A mezza voce il cuoco sgranò bestemmie: alla Madonna, ai santi più familiari. «La mente netta! E perché io la debbo avere, la mente netta? Che c’entro, che so? Io sono stato svegliato da un rumore e ho visto uno, in pigiama, che si muoveva su quei mattoni come una lucertola quando è presa Leonardo Sciascia TODO MODO - 51 - alla testa da un colpo di fionda. E questo è tutto». Allungò la mano verso il boccale e subito la ritrasse, bestemmiando ancora. «E non posso nemmeno bere un sorso di vino». Il giovane prete zazzeruto mi si avvicinò. «È sconvolto, poveretto: mai lo avevo sentito bestemmiare». A giustificare il cuoco e l’albergo. E poi «Il povero avvocato Voltrano: lei lo conosceva?». «No». «Un uomo di valore: Sacra Rota, sciogliomenti di matrimoni; ma negli ultimi anni si era dedicato alla politica; così, senza apparire molto: ma con abilità, con prestigio... Poveretto, ogni anno che veniva si raccomandava tanto: “per favore, una camera all’ultimo ptano”. E l’accontentavamo sempre». «Anche quest’anno» constatai. «Già, anche quest’anno». Ed ebbe come un brivido. «Ma non abbia rimorsi, per averlo accontentato: sarebbe morto anche cadendo dal settimo o dal sesto. O stando al primo piano, senza la formalità di gettarlo sotto». «Ma lei erede che l’hanno ammazzato?». «Lei no?». «Dio mio, un altro!». «Quando una cosa si comincia, tutto sta nel continuarla». «Ma il delitto...». «Appunto nel delitto non ci si può fermare». «Lei crede dunque che ce ne saranno altri?». «Ma no: qui ed ora è possibile che tutto si sia concluso. Non ci si può fermare, intendo, finché non si eliminano gli errori, gli incidenti, le sbavature che si sono verificati commettendo il primo; e poi, correggendo con altro delitto, quelli che ancora, imponderabilmente, insorgono; e così via... Questo, ovviamente, nei delitti il cui autore ha tutto calcolato per riuscire all’impunità. E poiché non c’è calcolo che non abbia un margine in cui l’imponderabile, il fortuito e insomma la fortuna non giuochino un ruolo fatale... E siamo appunto a questo caso: se l’avvocato Voltrano, stamattina, non avesse manifestato il dubbio, l’impressione, di non avere avuto sempre, durante la marcia del Rosario, 1’onorevole Michelozzi a lato, sarebbe ancora vivo». «Dunque lei crede che per quello che ha detto stamattina…». «O per quello che non ha detto». Il commissario doveva avere nelle orecchie invisibili tentacoli se lontano com’era, e tutto occupato come pareva a risolvere il problema di come l’avvocato Voltrano poteva esser caduto dalla propria finestra sul mucchio di mattoni, se c’era uno scarto Leonardo Sciascia TODO MODO - 52 - di almeno dieci metri (un agente stava alla finestra della camera di Voltrano, e stava calando giù una pietra appesa a un filo), colse le due ultime battute e mi gridò «Giustissimo: per quello che non ha detto... Ed è stato buttato giù dalla terrazza, lo vede?, non dalla finestra della sua camera». «E che vuol dire?» domandò il prete. «Vuol dire, mio caro amico, che sulla terrazza l’avvocato Voltrano c’è andato da sé; e c’è andato perché aveva appuntamento con la persona che l’ha ammazato». «Commissario, la prego: tenga per sé, e per me, ogni deduzione» intervenne duramente Scalambri. «Mi scusi, signor procuratore, mi scusi: ma si è data una curiosa coincidenza... Il suo amico, qui, stava avanzando una ipotesi proprio nel momento su cui io, che l’avevo fatta per mio conto, stavo verificandone la giustezza... Nemmeno la fisica è un’opinione: lo vede?». Mostrò l’agente che stava alla finestra, tra le mani il capo del filo da cui la pietra, a un metro dal suolo, lontana dal mucchio di mattoni, oscillava. «Ma il mio amico, lei non lo sa, scrive romanzi polizieschi» disse placato, e scherzosamente, Scalambi. «Non è soltanto il grande pittore che tutti conosciamo... E a proposito: il disegno? Come disse Orazio, promissio boni viri est obligatio... O è Trilussa che l’attribuisce ad Orazio per far rima con obligatio?». «Non mi ricordo: tu sai che di latino, io…». «Io l’amavo, invece, l’amavo». Sospirò di malinconia dietro la sorte che da Cicerone e Lucrezio lo aveva distolto per condurlo ad investigare su due delitti misteriosi, tra gente potente e malfida. «E il disegno, dunque?». «L’avrai stasera o domani. Tanto, per come si son messe le cose, da qui né tu né in ti muoviamo». «Siamo come una carovana impantanata». «Signor procuratore» interruppe il commissario «vuole venire anche lei sulla terrazza? Credo che una ricognizione…». «Certo certo» disse Scalambri. E come lasciandosi andare a una generosità per lui eccezionale e per me insperabile «Vieni anche tu». Con l’ascensore fino all’ottavo piano; poi, per una scaletta incassata come in una botola, uscimmo sulla grande terrazza a mattonelle smaltate, accecante di sole. Nel punto vicino alla ringhiera da cui, in precisa perpendicolare, l’avvocato Voltrano era andato a piombare sul mucchio di mattoni, c’erano macchie di sangue. «Perfetto» disse il commissario. Soddisfatto di sé, contento. Si fregò le mani, persino. «E ora dobbiamo trovare l’oggetto» guardandosi intorno «con cui quel figlio di puttana lo ha colpito». «Io penso» dissi timidamente «che l’oggetto non cui l’ha colpito, l’assassino l’avrà buttato giù: e subito dopo aver dato il colpo, o i colpi. Appena ha visto l’avvocato Leonardo Sciascia TODO MODO - 53 - afflosciarsi. Non poteva tenersi l’oggetto in mano, mentre buttava giù l’avvocato». «Poteva posarlo, nel dubbio che l’avvocato si riprendesse: per servirsene ancora» obiettò il commissario. «Giusto. Ma che abbia buttato giù prima l’oggetto e poi l’avvocato o prima l’avvocato e poi l’oggetto…». «In ogni caso, lei dice, l’oggetto l’avrà buttato giù... Eh sì, non se lo sarà portato in camera». E dalla meditazione passando all’azione «Corro a cercarlo». «E lo cerchi un po’ più lontano di dove è caduto l’avvocato» gli gridai dietro, ormai sicuro di me. Restammo, sulla terrazza battuta da un sole che sarebbe stato feroce senza il vento che dolcemente vi mulinava, Scalambri ed io (l’agente di guardia alla scala, lontano e dava l’impressione dormisse all’impiedi, come i muli); e mentre guardavamo giù, aspettando che vi comparisse il commissario, con aria confidente e condiscendente, Scalambri mi disse «Vedi: a me di come è avvenuto questo secondo delitto, del mattone o della grasta con cui Voltrano è stato colpito, importa poco o nulla. Mi importa sapere perché Voltrano è stato ammazzato. E lo so. Voltrano è stato ammazzato perché sapeva chi era l’assassino di Michelozzi e voleva ricattarlo». «Ma questo lo sai dal momento in cui è stato accertato che l’incontro tra l’assassino e la sua seconda vittima è avvenuto qui, sulla terrazza. Se Voltrano fosse stato aggredito nella sua camera, buttato giù dalla finestra della sua camera, questa certezza non l’avresti». «D’accordo, d’accordo: non avrei la certezza. Ma il dubbio che l’avvocato sapesse qualcosa di più di quello che ha detto, e volesse servirsene a ricattare l’assassino, ce l’ho fin da stamattina». «Io invece, stamattina, ho creduto fosse sincero: che non sapesse niente di più di quello che ha detto, che non ricordasse...». «Ti è parso sincero, in confusione, quasi mortificato dal fatto di non poter dire di più, di non poter ricordare meglio... Ma quello era un uomo che la verità non la diceva nemmeno su quello che aveva mangiato a pranzo o sull’orario dei treni. Sistematicamente. E se ha detto quello che ha detto, fingendo come per te, non per me, ha saputo fingere, uno scopo doveva averlo di certo. E sai che ti dico? Molto prubabilmente lui non ha visto niente: si è inventata quell’impressione, ha finto di avere quel vago ricordo, in base a un calcolo che avrà immediatamente fatto, di fronte alla ricostruzione che noi stavamo facendo... Poco fa io ti ho detto che stamattina mi era venuto il dubbio che l’avvocato sapesse. Stavo sbagliando: l’avvocato non sapeva niente. Ma appena ha afferrato che, stando alla sinistra di Michelozzi, qualcosa poteva aver notato, ha calcolato che dicendo di avere avuto quell’impressione, di qualcuno che si fosse insinuato tra lui e Michelozzi, quel qualcuno, conoscendolo, Leonardo Sciascia TODO MODO - 54 - avrebbe fatto di tutto per fermare la sua memoria; di tutto, cioè, per compensare in favori e denaro il suo silenzio, come tra loro usano... Non ha calcolato, però, che uno che ha già commesso un delitto facilmente, nel panico, può commetterne un altro». «Tu lo conoscevi bene, mi pare». «Benissimo, lo conoscevo benissimo. Mi ha dato più fastidi lui che tutti costoro messi insieme. Astuto, perfido; e di una tenacia, nei suoi disegni più perfidi... Una volpe: e si è finalmente imbattuto in un lupo». «Dunque, secondo te, stamattina, dicendo quello che ha detto, Voltrano gettava l’amo alla cieca, senza sapere chi avrebbe abboccato». «Ne sono quasi certo, ora». «Stamattina, invece, hai pensato che lui sapesse già chi sarebbe corso all’esca... Ma che sapesse o no, tenerlo d’occhio si poteva, sorvegliarlo discretamente…». «Quel cretino del commissario! lo glielo avevo detto che Voltrano non mi convinceva... Comunque, questo secondo delitto soltanto fortuitamente, per caso, può condurci al colpevole; il problema vero, quello in cui cercare i dati per risolverli tutti e due, è il primo. Il movente del secondo è chiaro: il ricatto. Ma è un movente che non ci conduce al colpevole. Se invece troviamo il movente del primo, il colpevole l’abbiamo in mano... Il fatto è, però, che di moventi, tra questa gente, ne puoi trovare a migliaia. Ce ne sono tanti, e così gravi, che è un miracolo non si azzannino e scannino qui, sotto i nostri occhi». «Problema insolubile, dunque». «Non è detto... Vedi: c’era in Michelozzi una particolarità, qualcosa di diverso rispetto a questi altri. Era sì un ladro, uno che, in altri tempi, avrei rubricato mille volte per malversazione e peculato, per corruzione, per tutti quei reati che i legislatori hanno constatato o previsto in rapporto all’amministrazione del denaro pubblico; ma per la morale corrente, per la prassi oggi in uso, era considerato strenuamente onesto: e soltanto perché pochissimo, o addirittura nulla, rubava per sé. Tutti costoro possiedono case, ville, aziende agricole modello; hanno la loro parte in piccole, medie e grandi industrie; da anni portano denaro in Svizzera, a centinaia di milioni, a miliardi: Michelozzi no: non possedeva una casa né un pezzo di terra; stava a pensione da suore e frati; si dice che persino distribuisse ai poveri parte del suo stipendio... Come facesse poi a trovare i poveri, non lo so... La sua diversità, insomma, consisteva in questo: che nessuno di costoro poteva ricattarlo con la minaccia di rivelare le sue malversazioni e corruzioni, e per il semplice fatto che tutti, dico tutti, dai reati commessi da Michelozzi hanno cavato vantaggi. Il corrotto non può provocare rovina sul corruttore senza restare sepolto dalle stesse macerie». «Non potendo dunque ricattarlo…». Leonardo Sciascia TODO MODO - 55 - «Ma si poteva far leva su altre cose, sollecitare interventi autorevoli... Per esempio: don Gaetano. La coscienza di tutti costoro, don Gaetano la maneggia e modella come cera; e se don Gaetano avesse detto a Michelozzi di fare o di non fare una certa azione in favore di colui che si è trovato invece costretto a commettere due omicidi... Ecco, mi è venuto di dire invece: invece di raccomandarsi a don Gaetano... Ed è possibile che prima di decidersi a un’azione così estrema, così disperata, e così rischiosa, l’assassino non abbia giuocato la carta di raccomandarsi a don Gaetano?... Ah, ecco finalmente un punto fermo: don Gaetano sa tutto. Ci sono arrivato». «E ci resterai». «Eh sì, lo so: ma debbo tentare». Da giù, ce ne eravamo distratti, il commissario gridava esultanza: aveva trovato, e l’agitava in alto (una cosa rossastra che faceva corolla al centro di una salvietta bianca), il curpus delicti. Scalambri tentò. Per circa tre ore. Ne uscì stanchissimo, vinto. Da quel che mi raccontò, don Gaetano aveva eluso e deluso ogni sua domanda vaporizzando dottrina cristiana. «Come un gas» diceva Scalambri «come se avessi aperto il rubinetto del gas e mi fossi seduto lì, ad aspettare che mi stordisse... Ipocrita, delinquente…». Ma stancamente, non aveva nemmeno la forza di essere arrabbiato. Soltanto si animò quando il commissario, poco prima di scendere in refetturio, gli disse di aver saputo che nell’albergo c’erano state, fino al momento in cui era stato ammazzato Michelozzi, cinque donne: ed erano scomparse. «E me lo dice ora?» rimproverò Scalambri. «Ora l’ho saputo e ora glielo dico». «Prima, avrebbe dovuto saperlo. Subito. Appena arrivato» incalzò Scalambri. Il commissario allargò le braccia, reclinò la testa sulla spalla sinistra: un crocefisso. «È una cosa senza importanza» dissi, in soccorso al commissario. «Sono sicuro che non hanno niente a che fare coi delitti; e se sono scomparse, se le hanno allontanate la sera stessa, senza che ce ne accorgessimo, si può solo dedurre che don Gaetano si è preoccupato di quel tanto di scandaloso, di boccaccesco, che poteva venirne fuori». «Appunto» disse Scalambri, sorridendo malizia e vendetta «appunto...». Si capiva che avrebbe usato l’argomento a convincere don Gaetano a dirgli qualcosa sul delitto; o soltanto per vendicarsi. E non resistette al piacere di dargliene avviso a tavola. Maldestramente: ché don Gaetano, apprendendo che Scalambri sapeva delle donne e minacciava di farne scandalo, prese immediatamente le sue misure e si mostrò pronto al contrattacco. Leonardo Sciascia TODO MODO - 56 - Come per improvvisa e disinteressata curiosità, Scalambri aveva cominciato col domandare «Ma questo è un albergo o, che so, una specie di monastero, di asilo?». «È un albergo che periodicamente diventa, come lei dice, una specie di monastero». «Ma, dico, è gestito come un albergo, no?». «Che vuol dire: gestito come un albergo?». Don Gaetano era già attento, guardingo. «Voglio dire: è tenuto ad osservare le stesse norme di legge, lo stesso regolamento di polizia, che osservano gli alberghi non gestiti da enti ecclesiastici o da religiosi?». «Non lo so» disse don Gaetano. «Ma qualcuno lo saprà, immagino». «Certo». Suonò il campanellino che aveva davanti, e nel silenzio che subito si fece, chiamò «Padre Cilestri…». Dal suo tavolo, il chiamato si alzò. «Resti, resti dov’è» disse don Gaetano. «Dica soltanto, al signor procttratore che vuol saperlo, se noi siamo tenuti a schedare i nostri ospiti e a mandare copie delle schede alla polizia» e abbassando la voce e rivolgendosi a Scalambri «ché immagino sia questo che lei vuol propriamente sapere». «Siamo tenuti» disse padre Cilestri. «Grazie» disse don Gaetano. E a Scalambri «Siamo tenuti, dunque; ma dubito molto che padre Cilestri l’abbia mai fatto». «E perché?». «Come, perché» si risentì il ministro. «Ma perché, caro signor procuratore, qui siamo sempre tra noi: come in una specie di monastero, per usare la sua giusta espressione». «Una specie di monastero; ma non è un monastero». «Non lo è di forma, ma lo è di fatto. Ci raccogliamo qui, ogni anno, in tre o quattro turni, per meditare, per pregare...». Il ministro sembrava aver dimenticato i due delitti. E chi avrebbe avuto l’indelicarezza di ricordarglieli? L’ebbe il commissario, dopo aver constatato, girando lo sguardo, che nessuno era pronto, chi sbalordito chi timoroso, al sacrificio. «Due delitti, eccellenza, due». (Mi disse poi «Me ne fotto: io tra due mesi vado in pensione»). Il ministro arrossì di collera, ma si contenne. «Lei, signor commissario, può tenersi la sua opinione; ma non ha nulla, non una prova, non un indizio, per contrastare la mia. Che è questa: nessuno di coloro che siamo qui, in questa sala, ha commesso i due delitti». «Lei dice: nessuno dei presenti» intervenne Scalambri. «Proprio: nessuno dei presenti». «Dei presenti» fece eco, con intenzione, Scalambri. Leonardo Sciascia TODO MODO - 57 - «Dei presenti» ribadì il ministro, ma con qualche esitazione, come sospettando una trappola. E poi, preoccupato, rivolgendosi a don Gaetano «Manca forse qualcuno?». «Nessuno» disse don Gaetano con esasperata fermezza. E fissò Scalambri d’uno sguardo che lentamente, come un obiettivo, si restringeva a diventate, da spento che sembrava, acuto e rapido; e al mutamento dello sguardo si accompagnava un movimento della mano destra, a somiglianza della zampa di un gatto nel giuoco di tirar fuori le unghie e di ritirarle. «E poiché nessuno manca» continuò il ministro «confermo e sottoscrivo la mia opinione: l’assassino non è tra noi». Poiché aveva alzato la voce e, dal momento che don Gaetano aveva chiamato padre Cilestri, tutti stavano in silenzio a seguire quel che si diceva al nostro tavolo, le parole del ministro furuno salutate da un coro di «benissimo, giustissimo, bravo» e poi da un battimano frenetico e prolungato. Quando si spense, il ministro disse «Mi fa piacere notare che tutti condividiate la mia opinione» sollevandosi sulla sedia e facendo un quarto di giro verso destra e un quarto verso sinistra. «Aveva il dubbio che qualcuno fosse di diversa opinione?» disse don Gaetano, beffardo. Fu come se gli avesse gettato in faccia un secchio di acqua diaccia. Al ministro mancò il respiro, annaspò a dire qualcosa. Ma non la disse. Peraltro, don Gaetano era passato subito a dire, per cambiar discorso, e cioè per tornare a quello tra lui e Scalambri «Sì, temo proprio che padre Cilestri abbia sempre trascurato il dovere di trasmettere alla polizia le schede dei nostri ospiti... È una infrazione grave?». «Per un qualsiasi gesture d’albergo, gravissima». «Lei vuol dire che io non sono un qualsiasi gestore d’albergo? La ringrazio». «L’ha detto sua eccellenza» disse Scalambri indicando il ministro. «Ma io lo dicevo così, come opinione personale, senza sapere, senza conoscere; e soprattutto senza la più lontana intenzione di immischiarmi, di interirire... Del resto, non sono ministro dell’Interno o della Giustizia; mi occupo di ben altre cose, per mia fortuna». «Non intendeva elargirci immunità» concluse don Gaetano. «Piuttosto, lasciando da parte la gravissima infrazione in cui siamo caduti, in cui sono caduto, voglio dirle, ma convivialmente e, spero me lo conceda, amichevolmente, i pensieri che mi sono venuti quando lei ha fatto la prima domanda ex abrupto; e s’intende che uso 1’espressinne con malizioso richiamo al procedimento cui una volta dava nome... Una volta: convenzionale e immeritato omaggio al nostro tempo, poiché ogni procedimento diciamo di giustizia si è svolto e si svolge sempre ex abrupto, anche se diluito nei tempi e nelle modalità... Quando lei, dunque, ha fatto la prima domanda: Leonardo Sciascia TODO MODO - 58 - se questo è un albergo o una specie di monastero (e credo sarebbe stato più esatto domandare se è un albergo o una sede di confraternita), io ho subito pensato…». Fece una pausa, come aspettando che Sralambri gli desse il permesso di continuare. E di essergli amico. «Dica» incoraggiò Scatambri. Ma con una certa inquietudine. «Ho pensato, ecco: siamo a tavola a spezzare lo stesso pane e a bere lo stesso vino; ma lui non dimentica di essere inquisitore e giudice come io non dimentico di essere prete... Che terribili missioni, le nostre! Terribili e necessarie: e direi che sono terribili nella misura in cui sono necessarie, e necessarie nella misura in cui sono terribili... Siamo i morti che seppelliamo altri morti... Dio mio!». Si prese la testa tra le mani, i gomiti puntati sulla tavola, e coprendosi gli occhi come per vedere dentro di sé tanta terribile necessità. Fece un certo effetto. Anche su di me, debbo ammetterlo. Solo il cummissario restò a sogguardare con ironia lui e noi. Quando don Gaetano riemerse tra noi, lasciando cadere le mani a palma in su, quasi a mostrare le stigmate della crocefissione da cui scendeva, disse «Ma come mi spaventa l’essere prete, di più mi spaventerebbe l’essere giudice... Le parole di Cristo sono tremende: “Non giudicate, affinché non siate giudicati”. Non proibisce il giudicare, ma lo pone in diretto e inevitabile rapporto con l’essere gindicati. “Leva prima la trave dat tuo occhio, e allora avrai la vista capace per togliere la pagliuzza nell’occhio del fratello”. E noti: la trave nell’occhio di chi giudica, la pagliuzza nell’occhio di chi è giudicato. Non avrà voluto intendere che solo i peggiori giudicano, scelgono di giudicare, possono giudicare, in forza delle loro colpe, della loro colpa, ma dopo essersene confessati e liberati?». Scalambri stava in penosa attenzione e tensione; e per concedergli tregua, come il gatto col topo, don Gaetano divagò. «La trave: dalla prima volta che ho letto questo passo o che l’ho sentito, sempre ho pensato a Polifemo accecato da Ulisse, a Poliferno che si strappa dall’occhio la trave fumigante... E chissà se a Gesù non sarà accaduto di sentire da un qualche cantastorie l’avventura di Ulisse, o da un mercante... Pensi quanto poco noi conosciamo della vita di Gesù: come se ciascuno di noi trovasse dei testimoni della propria vita dal momento in cui io sono stato ordinato sacerdote, lei è entrato nella magistratura, il commissario nella polizia, il professore» indicando me «ha fatto la sua prima mostra; e così via... E la nostra vita conta sì per il fatto che io sono prete, lei giudice, il commissario cummissario e il professore pittore: ma l’infanzia, l’adolescenza, i luoghi in cui siamo vissuti, le persone tra cui abbiamo passato l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza? E i libri che abbiamo letto, e gli amori, e gli inganni? E possiamo anche fare a meno dell’adolescenza e della giovinezza: ma un uomo è quale i primi dieci anni di vita lo hanno fatto; e nulla sappiamo di lui se nulla sappiamo di questi suoi dieci anni... Naturalmente, la vita di Gesù non ha niente a che fare con la nostra: di lui ci bastano gli anni folgoranti, gli anni testimoniati; ma io Leonardo Sciascia TODO MODO - 59 - sono stato sempre affascinato dai suoi anni oscuri, e sempre mi hanno dato alla fantasia». E a Scalambri «Come è stata la sua infanzia? Felice, infelice? Spero per lei che sia stata infelice, le infanzie felici germinano noia, tristezza, nequizia…». E subito riprendendosi e rimproverandosi «Non la consideri una domanda e non mi risponda. È un mio vizio: quando una persona comincia a interessarmi, ecco che gli faccio delle domande sulla sua infanzia... Ma qui è lei che deve far domande, non io. Io stavo invece dicendo…». Restò come ad aspettare da noi, suggeritori nella buca, il punto cui riannodare il discorso che stava facendo. Ma sapeva benissimo ritrovarlo da sé. E infatti «Dicevo del giudicare; dell’inquisire e del giudicare. E che Cristo avrà voluto forse affermare che solo i peggiori possono assumersi un simile compito; soltanto gli ultimi essere in questo i primi... Ma, per carità!, non veda in questo mio divagare la minima allusioue personale. Io di lei non so nulla. Nulla, assolutamente» e lo disse fissandolo, e come se invece sapesse tutto. «E d’altra parte, i termini peggiori e migliori io li pronuncio in senso evangelico: appunto dei primi che saranno gli ultimi, degli ultimi che saranno i primi». Stese la mano, lentamente, la planò su quella di Scalambri. La faccia gli si illuminò di benevolenza, di affetto. «Non so nulla di lei» e ancora si fermò sul nulla a farlo diventar tutto «ma le voglio bene». Scalambri si alzò da tavola che sembrava tutt’altro uomo. Si appoggiò anzi al mio braccio con una certa pesantezza, come malfermo. E quando il commissario si avvicinò a chiedergli sottovoce «Signor procuratore, diamo dentro a questa faccenda delle donne scomparse?» lui, di un tono più alto del neeessano, a farsi sentire da coloro che intorno a noi, senza parere, sempre si aggiravano, nervosamente rispose «E che vuol dare dentro? Non capisce che queste donne, ammesso che ci fossero, non hanno niente a che fare col delitto e che se ci mettiamo ad inseguirle rischiamo di perdere del tutto il filo?». «Quale filo?» domandò con aria tonta il commissario. Si divertiva. «Ma il filo…» disse confuso, e sottovoce, Scalambri. «Il filo del denaro, degli interessi, degli affari loro, dei ricatti: che è l’unico possibile». «Solo che non lo teniamo» disse il commissario. «Non lo teniamo, va bene...». La voce di Scalambri vibrò istericamente. «Va bene, non lo teniamo: ma dobbiamo cercare di raggiungerlo, di afferrarlo... Ho già dato disposizioni: dei miei colleghi, in più luoghi, stanno indagando. Non dormo, io…» e mi trascinò via, piantando il commissario. Mi voltai a guardarlo. Era soddisfatto; soddisfatto e ghignante, il commissario; e mi ammiccò a dire: è ridotto male, il suo amico. E a prova Scalambri stava dicendomi «Questo cretino del commissario: vuol farmi correre dietro alle donne, che chi sa poi se c’erano veramente». Leonardo Sciascia TODO MODO - 60 - «C’erano». «Ah, c’erano davvero?... Comunqne, non c’entrano... Vedi: io mi sono fatta una precisa opinione di questi delitti, e mi pace di avertene parlato oggi, mentre stavamo sulla terrazza. Tendo perciò ad eliminare tutte le scorie, tutti i fatti e gli indizi che finirebbero col fuorviarci, col confonderci... Il commissario, non so se in buona fede, perché è un cretino, o interessatamente, perché è un cretino corrotto, vuole gettarmi tra i piedi l’inciampo delle donne: per farmici cadere sopra. Io invece lo scavalco e procedo». Caritatevolmente, non gli ricordai che poco prima di andare a tavola era stato lui, e non il commissario, a credere importante la presenza e la scomparsa delle donne. «Ma mi pare che don Gaetano tenga molto a che non si parli delle donne; e nella misura in cui lui ci tiene... Pensa che succederebbe, sui giornali, se venisse fuori che gli esercizi spirituali di cinqne di questi potenti erano confortati dalla presenza delle loro amanti». «A parte il fatto che non un giornale, non uno dico, ne parlerebbe... Che cosa credi che succederebbe? Pochi si indignerebbero, molti si divertirebbero; e qualcuna di queste donne finirebbe col fare un film, e magari un film intitolato Esercizi spirituali: lei nuda e un centinaio di facce ipocrite intorno... A me succederebbe invece, nell’ordine: il mio capo avocherebbe a sé l’inchiesta, mi promuoverebbero, mi trasferirebbero. E su questi due delitti calerebbe per sempre la dicitura “ad opera di ignoti”. Ti pare che valga la pena?». «Tu dunque conti di risolverli, di trovare il colpevole?». «Spero, spero...». Ma svogliatamente. E passando alla curiosità, alla malizia «E come sono, queste donne? Giovani? Belle? E chi se le era portate dietro?». «Non brutte, e piuttosto giovani. Del tipo che pnò piacere a costoro: un po’ abbondanti, un po’ sgargianti, un po’ volgari. C’è una netta demarcazione, per costoro, tra le donne da sposare e far prolificare e le donne con cui peccare: queste bisogna che emanino il senso del peccato a prima vista, a primo odore... Ma a chi appartenessero, le cinque che erano qui, non saprei». «Voglio saperlo; almeno questo voglio saperlo». «Può servire» ambignamente dissi. «Non servirà, ma voglio saperlo. O me lo dice don Gaetano o li chiamerò uno a uno». «Penso che, promettendogli il silenzio, don Gaetano te lo dirà». «Lo penso anch’io» disse Scalambri. Mi diede una protettiva manata sulla spalla e se ne andò; certo in cerca di don Gaetano. Vedendomi solo, il ministro mi si avvicinò. Ebbi la seconda protettiva manata sulla spalla della serata. «Mio caro amico» come saluto ma scuotendo la testa con Leonardo Sciascia TODO MODO - 61 - sconforto, con desolazione; come a dice: qui siamo, a fare i conti con le miserie umane, coi delitti, coi giudici, coi poliziotti: anche noi due che non c’entriamo per nulla, che siamo ugualmente e diversamente puri. Poiché, nella sua concezione, la pura inutilità dell’arte restituiva l’artista a una purezza quale, per lui, il suo vivere cristiano: salva restando la diversità e superiorità del suo vivere cristiano. E io dissi quello che lui mimava. «Terribile esperienza: non avrei mai sospettato, quando ho imboccato la strada dell’eremo, ehe sarei entrato in questa specie di incubo». «A chi lo dice! Io, poi, che vengo qui ogni anno come ad un luogo di ricreazione, di elevazione, può immaginare se potessi aspettarmi una cosa simile... Due delitti, due miei carissimi e vecchi amici uccisi nel giro di poche ore. E tutti noi sfiorati dal sospetto del giudice, dei giornalisti, dell’opinione pubblica... Ma che dico, sfiorati? Addirittura covati, dal sospetto. Ha sentito il commissario, a tavola? Il mestiere, la deformazione professionale: va bene. Ma, Dio mio, un po’ di riguardo, un po’ di tatto... E non per quello che ognuno di noi è, per quello che ognuno di noi rappresenta nella vita pubblica: ci mancherebbe, la legge è uguale per tutti... Ma direi per il luogo, per la ragione per cui ci troviamo qui: la meditazione, la preghiera...». E arrivando al punto cui voleva arrivare «Io spero che il suo amico, il procuratore, non veda le cose dallo stesso angolo visuale del commissario: chè è proprio il caso di parlare d’angolo; angolo mentale, angolo morale…». «È una sfinge». «Come?». «Il mio amico, il procuratore: è una sfinge. Non si lascia sfuggire nulla delle sue opinioni sui delitti, delle sue intenzioni... Quando gli domando qualcosa sui delitti, risponde oracolando». «Tutti così, questi magistrati: oracoli sono, oracoli... Ma mi creda: non fanno gli oracoli perché sanno e non vogliono dire; fanno gli oracoli così come da sempre si è fatto il mestiere dell’oracolo». «Ma forse Scalambri qualcosa sa, un filo lo tiene». «Lei crede?» disse il ministro sforzandosi di assumere una espressione di ironica incredulità. «Sì, mi pare che qualcosa in mano ce l’abbia: un indizio, un’informazione...». «Un indizio, un’informazione...» fece eco il ministro, di colpo cadendogli la maschera dell’ironica incredulità. «E che mai può essere questo indizio, questa informazione?». «Non avendo conosciuto le vittime, non sapendo nulla del loro carattere, delle loro attività, dei loro intrighi, non sono in grado di decifrare gli oracolamenti di Scalambri». Leonardo Sciascia TODO MODO - 62 - «Per esempio...?». Con la speranza che io me lo ricordassi. «Per esempio, poco fa, e stavamo parlando dei delitti, mi ha detto: “Nessuno merita di essere lodato per la sua bontà se non ha la forza di essere cattivo”». «“Nessuno merita di essere lodato per la sua bontà se non ha la forza di essere cattivo”: ha detto esattamente così?». «Esattamente». E completai mentalmente la citazione: «ogni altra bontà non è il più delle volte che una pigrizia o una impotenza della volontà». «Sembra una di quelle massime che una volta si trovavano negli involucri dei cioccolatini... “Nessuno merita di essere lodato per la sua bontà se non ha la forza di essere cattivo”... Ma come massima, direi che è cretina: chi ha la forza di essere cattivo è cattivo». E messo a posto François de La Rochefoucauld, il ministro si diede a trovar senso a una massima tanto cretina in rapporto al caso di cui si preoccupava. «Forse avrà voluto alludere al povero Michelozzi: che era naturalmente buono... Ma questo che c’entra? Non l’avranno certo ammazzato per la sua bontà. Se tutti dicono che era buono, e anch’io lo dico, ché siamo stati vicini per quasi mezzo secolo, chi l’ha ammazzato voleva metter fine al pericolo che Michelozzi rappresentava per lui: non c’è altra spiegazione». «Dunque lei non crede più che sia stato ammazzato per caso?». «Per caso? E come potrei crederlo, dopo il secondo delitto?». «Ma se lei esclude che a commettere i delitti sia stato uno di voi…». «Non ci siamo solo noi, qui. Credo ci siano da venti a trenta persone che vanno e vengono dall’albergo; e sono poi quelle che meno si notano, che per il fatto che stanno dove debbono stare e fanno quello che debbono fare diventano quasi invisibili». Pensai al timore del cuoco, e quanto fosse fondato. «Ma un cameriere, uno sguattero, una di queste orsoline o figlie di Maria che aiutano a servire a tavola, per quale ragione avrebbero ammazzato Michelozzi e poi Voltrano?». «Lei non ha mai sentito parlare di delitti commissionati, di killers? Le cose, mio caro amico, di solito sono meno complicate di come appaiono o di come noi le rendiamo». Mi diede altra manata sulla spalla; di compatimento, questa volta. E se ne andò verso un gruppo dei suoi, certo a comunicare la massima di La Rochefoucauld che io per divertimento avevo attribuito a Scalambri. Rientrai in albergo proprio mentre Scalambri usciva dallo studio di don Gaetano. Era soddisfatto, godeva dentro di sé del segreto che certamente don Gaetano gli aveva rivelato. Era così beato che mi passò accanto senza vedermi. Io tirai verso lo studio di don Gaetano, bussai, aprii la porta. Don Gaetano stava alla scrivania. Levò gli occhi dalle carte dicendo «Avanti». Gli orchi e gli occhiali; ché levando dritto lo sguardo, gli occhiali, appinzati a metà del Leonardo Sciascia TODO MODO - 63 - naso, con lo sguardo non stavano più in linea ma sembravano assumerne altro meno freddo e impassibile. Curioso effetto, e veniva dalle rifrazioni della luce colorata che gli stava accanto; una lampada dalla coppa in pasta di vetro, di quelle che al principio del secolo venivano da Nancy e da Vienna e che oggi ovunque si rifabbricano, ovviamente più brutte. Pagliettata di verde, di giallo e di blu, e predominando il viola, la luce si rifrangeva nelle lenti mobilmente, come animandole; mentre spenti restavano gli occhi di don Gaetano. Chi leggerà questo manoscritto o, se mai sarà pubblicato, questo libro, si domanderà a questo punto perché non ho più parlato degli occhiali di don Gaetano. Ebbene, non ne ho parlato più perché non è vero che non mi avessero impressionato, la prima volta che glieli vidi tirar fuori. O forse allora mi impressionarono meno di quanto poi pensandoci e rivedendoglieli. Certamente, anzi; perché cominciai ad avvertire l’inquietudine che quegli occhiali mi avevano seminato nel momento in cui, nella mia camera, mi ritrovai a disegnarli. Più volte, sullo stesso foglio; sicché ne venne un campo di occhiali come di meloni; grandi, piccoli, appena accennati, vuoti di lenti, con le lenti; e qualcuno con dietro gli occhi seuza sguardo di don Gaetano. Uno strano disegno, tra quelli che faccio di solito; e chi lo vedesse senza conoscere queste pagine, forse penserebbe sia venuto fuori in margine a una lettura di Spinoza, che fabbricava occhiali di quel tipo; o che fossi rimasto impressionato degli occhiali di don Antonio de Solis, in quel ritratto che adorna il frontespizio della edizione settecentesca della sua Istoria della conquista del Messico; o che avessi studiato di illustrare i versi di quel porta arabo-siculo sulle lenti. Ed ecco che in questo momento, mentre scrivo, il fatto di ricordare queste immagini (immagini vere e proprie e immagini da parole) mi sorprende e aggiunge inquietudine all’inquietudine. Com’è che così nitidamente vedo Spinoza nella sua bottega di ottico, l’ombra della sera, le lenti come piccoli laghi in un paesaggio di manoscritti, tra le selve delle parole scritte (quella grafia secentesca che sembra agitata come da un vento, stormente); che così nitidameute ricordo il ritratto di don Antonio e i versi di Ibn Hamdis? Non c’è qualcosa, nelle lenti, negli occhiali, che mi suscita, remoto, imprecisabile, un senso di stupore e insieme di apprensione? Non c’è qualcosa che ha a che fare con la verità e con la paura di scoprirla? (E sto anche pensando a quel racconto di Anna Maria Ortese che appunto s’intitola Un paio di occhiali: della bambina di vista debolissima cui danno finalmente gli occhiali; e la miseria del vicolo napoletano in cui vive le balza improvvisamente incontro, le provoca vertigine e vomito). Gli occhiali di don Gaetano, dunque; e l’inquietudine che mi davano. Era un caso che li avesse del modello di quelli del diavolo o se li era procurati apposta? Ed ero stato più volte tentato di domandarglielo, ma sempre avevo resistito. Resistetti anche quella sera, sedendo davanti a lui, la scrivania di mezzo, per come mi aveva invitato e indicato. Leonardo Sciascia TODO MODO - 64 - «Spero di non discurbarla» dissi. «Nessutto mi disturba, mai». E dopo un lungo scrutarmi, ma come al solito fingendo di non vedermi «Ha qualche problema? O vuole forse lasciarci?». «Non potrei andarmene, credo; e comunque, ho curiosità di vedere come va a finire». «Non va a finire. La sua curiosità resterà inappagata... Ha qualche problema? Voglio dire: qualcosa che vuol sapere, qualcosa che vuol confidarmi? In questo momento, tutti quelli che sono qui o vogliono sapere qualcosa da me o qualcosa vogliono confidarmi». «Sì, avrei anch’io una cosa da domandarle…». «Ecco. Domandi pure». E sollevò gli occhiali a livello degli occhi. Per non vedermi meglio, ostentatamente. «Stasera, a tavola: non so in quale preciso momento la sua freccia è partita; ma l’ho vista che vibrava ancora, infissa nel costato di Scalambri». «Bella immagine, molto letteraria». Sorrise indecifrabilmente, forse di soddisfazione. «La freccia, il costato: davvero una bella immagine... E non dubito che lei l’abbia vista, infissa al costato di Scalambri e ancora vibrante. Posso anzi ammettere di averla vista anch’io. Solo che non l’ho tirata». «Vuol dire, cioè, che ne ha tirate tante senza sapere quale sarebbe andata al bersaglio?». Non rispose. «Il povero Scalambri» dissi dopo un po’, non sapendo come riagganciare don Gaetano che aspettava che parlassi o che me ne andassi. «Povero: ecco una parola usata sempre a sproposito». «Non mi pare di averla usata a sproposito, cristianamente parlando. L’ho visto per un momento nudo e ferito; e quindi, per un momento, povero. Vestire gli ignudi, visitare gli infermi… O ricordo male?». «Cristianamente parlando... Lei, dunque, parla cristianamente». «Faccio l’avvocato del diavolo». «Ruolo interessante: l’ho assunto, propriamente, una tolta. In un processo di beatificazione. Divertente, anche... Comunque, non ricorda male: vestire gli ignudi, visitare gli infermi... Ma cinque minuti fa, Scalambri era seduto dove è seduto lei: vestito di tutto punto e in buonissima salute... Stava ricattandomi». «Ma davvero?» dissi, fingendo incredulità. «Non finga di non sapere o, se non sa, di non capire». «Ha ragione. Ma era propriamente un ricatto?». Leonardo Sciascia TODO MODO - 65 - «Non propriamente. Solo che riassicurandomi del suo silenzio sulla faccenda delle donne voleva che io rompessi il mio: come segno di cortesia che risponde a cortesia, se non di riconoscenza». «E lei?». «Sono stato riconoscente». «Più che cortese, dunque». «I cinque nomi avrebbe potuto saperli da chiunque, qui. E gli ho dato in più cinque storie. Il suo amico se ne è deliziato. Era come un cane cui finalmente si getta un osso da spolpare: ronfava di soddisfazinne, di godimento». «Non è mio amico. Se lo fosse, non potrei condividere il suo disprezzo». «Ah, lei lo disprezza? Io no. Non è disprezzo, il mio. Non ho, nei riguardi del suo amico (mi scusi: del signor procuratore) alcun sentimento, come non ne ho nei riguardi di una qualsiasi ruota o molla di quest’orologio». Indicò quello sul tavolo. «Ma ne ha nei riguardi dell’orologio». «Non direi. A meno che non si voglia chiamare sentimento la stizza di quando voglio sapere l’ora e mi accorgo che è fermo». «Giusto il contrario di quel che le accadrebbe con Scalambri se, guardandolo per constatare che è fermo, si accorgesse che invece si muove. Che si muove, voglio dire, verso il colpevole di questi due omicidi». «Lei sta per ripetere quello che mi ha detto ieri: che dovrei aiutare Scalambri a risolvere il problema. Ma il problema è di Scalambri non mio». «Professionalmente è di Scalambri, solo professionalmente. Se qui fossimo nell’isolamento più assoluto, al di fuori di ogni giurisdizione, non erede che saremmo costretti a inventare tra noi la legge che Scalambri rappresenta e a perseguire il colpevole?». «È possibile anche il contrario: che tutti si diventasse, uno contro l’altro, colpevoli. E in verità quella che lei chiama l’invenzione della legge altro non è che questo: il diventare tutti colpevoli. Ma lasciamo andare questo discorso, ché ci porterebbe lontano... Non siamo isolati, non siamo al di fuori di ogni giurisdizione: il suo amico Scalambri c’è, ha tutta l’autorità e tutti i mezzi per risolvere il problema... E stavolta non le chiedo scusa per aver detto il suo amico: che lei lo disprezzi o meno, sta dalla sua parte, non può che stare dalla sua parte». «Sì, non posso che stare dalla sua parte. Lei invece…». «Non ho una parte da cui stare. Aspetto che tutto si compia». «Cioè che tutto non si compia». «Dal suo punto di vista, sì: che tutto non si compia. Ma dal mio... Ricorda il Vangelo di Luca? L’ha mai letto?... “Io sono venuto a portare fuoco sulla terra; e che Leonardo Sciascia TODO MODO - 66 - voglio, se già divampa? Ora devo essere battezzato di un battesimo, e come sono angustiato fin tanto che ciò non si compia”». «Quale battesimo aspetta?». «Il dolore, la morte: non ce n’è altro». «Ma per aspettare questo battesimo, che bisogno c’è di tutto questo? Che bisogno ha lei di fare un albergo, di amministrarlo, di fare e amministrare tante altre cose? Che bisogno hanno i suoi amici di governare, di comandare: con la sua benedizione se non addirittura per suo mandato?». «Questa volta tocca a me protestare: non sono miei amici. Ma sono anche loro il fuoco che divampa. E per quanto li disprezzi, al tempo stesso che li amo: “che voglio, se già divampa?”». «Bisogna dunque distruggere». «Non c’è altra via, non c’è altro scampo. Distruggere, distruggere... Il nostro più grande errore, il più grande errore che sia stato commesso da coloro che hanno governato, o che hanno creduto di governare, la Chiesa di Cristo, è stato quello di identificarsi, ad un certo momento, con un tipo di società, con un tipo di ordine. È un errore che perdura, anche se molti ormai cominciano ad avere coscienza che è un errore. Approssimativamente, con una battuta, le posso dire: il secolo diciottesimo ci ha fatto perdere il senno, il ventesimo ce lo farà riguadagnare. Ma che dico, ce lo farà riguadagnare? Sarà finalmente la vittoria, il trionfo». «La fine». «Dal suo punto di vista, sì: la fine... Ma sarà l’epoca, o almeno il principio dell’epoca più cristiana che il mondo può conoscere... Tutto concorre, tutto ci aiuta; anche tutto ciò che quelli di noi che avevano perduto il senno o che ancora non l’hanno riacquistato credevano e credono nemico... Ci aiuta la scienza, ci aiuta la sazietà; così come ancora, si capisce, ci aiutano l’ignoranza e la fame... Pensi: la scienza... L’abbiamo combattuta tanto! E infine, che scruti la cellula, l’atomo, il cielo stellato; che ne carpisca qualche segreto; che divida, che faccia esplodere, che mandi l’uomo a passeggiare sulla luna: che fa se non moltiplicare lo spavento che Pascal sentiva di fronte all’universo?». «Non mi pare che sia preso da questo spavento cosmico, l’uomo di oggi. Al contrario». «È tanto indaffarato a spostare i confini, come dopo una guerra vinta, che ancora non lo avverte; ma le incrinature già ci sono, da cui si insinuerà lo spavento. E lo spavento cosmico sarà nulla di fronte allo spavento che l’uomo avrà di se stesso e degli altri... Ricorda? “E sempre lo contraddico, finché non comprenda che è un mostro incomprensibile”; e poiché come non mai oggi Dio ci contraddice...». «Noi fuggiamo da Dio». Leonardo Sciascia TODO MODO - 67 - «Non c’è fuga, da Dio; non è possibile. L’esodo da Dio è una marcia verso Dio». E lo disse con un che di disperato, o mi parve: chè togliendosi in quel momento gli occhiali e come per stanchezza chiudendo gli occhi, il volto gli prese un’espressione di fragilità e lontananza da farmi pensare ad uno che fosse invecchiato in prigione e ricordasse che una volta aveva tentato di evadere. Ancora ad occhi chiusi (o che leggesse quello che pensavo o che fossi io a leggere quel che lui pensava), disse «L’evasione...». Riaprì gli occhi, s’inclinò verso di me sulla scrivania. «È stato detto che il razionalismo di Voltaire ha uno sfondo teologico incommensurabile all’uomo quanto quello di Pascal. Io direi anche che il candore di Candide vale esattamente quanto lo spavento di Pascal, se non è addirittura la stessa cosa. Solo che Candide trovava finalmente un proprio giardino da coltivare... “Il faut cultiver notre jardin”... Impossibile: c’è stato un grande e definitivo esproprio. E forse si possono oggi riscrivere tutti i libri che sono stati scritti; e altro anzi non si fa, riaprendoli con chiavi false, grimaldelli e, mi consenta un doppio senso banale ma pertinente, piedi di porco. Tutti, Tranne Candide”». «Ma si può leggere». Fece un gesto di noncuranza. «Lo legga». E vivacemente «Deve leggerlo, anzi: per rendersi conto che è solo e che non ha scampo». E dolcemente «Ma perché vuole reprimere in sé tutto ciò che la porta verso di noi? Perché vuol cuntraddirsi?». «Perché lei mi contraddice, perché mi contraddice il suo Dio. Non sono un mostro incomprensibile». Mi alzai. Per una volta, volevo essere io a lasciarlo. «Buonanotte» dissi. Non mi rispose. Non persi tempo a salire nella mia camera, uscendo dallo studio di don Gaetano: il tempo di attraversare il corridoio e l’atrio, di chiamare l’ascensore, salire, attraversare quasi due lati del quadrato che i corridoi facevano ad ogni piano, aprire, accendere la luce, entrare. Ripeto i miei movimenti per come li ricordo, e credo di ricordarli esattamente. Ma forse, soprappensiero, avrò passato aspettando l’ascensore più tempo di quanto riesca a valutarne nel ricordo: ché non si spiega altrimenti il fatto che sul tavolinetto, spiccando sui fogli da disegno, stava un libro rilegato in nero, in quella rilegatura che i francesi chiamano giansenista. Non aveva diciture nè sul piatto né sul dorso, ma sapevo, prima di aprirlo, che erano i Pensieri di Pascal. Come avesse fatto don Gaetano a farmelo arrivare in camera prima che io vi arrivassi, era da spiegare con una perdita di tempo, ripeto, da parte mia inavvertita. O l’aveva fatto portare prima: ed era spiegazione anche più inquietante. Leonardo Sciascia TODO MODO - 68 - L’aprii al frontespizio e poi dove era il nastrino nero a segnale. L’occhio mi cadde, naturalmente, sulla pagina destra, che cominciava col numero 460, numero del pensiero e non della pagina (e per un momento divagai nel pensiero dei pensieri numerati, e se tutti i pensieri, di ciascuno e di tutti, scritti, detti o soltanto pensati, non fossero enumerazioni e numeri ingoiati, assimilati e calcolati da una immensa e invisibile macchina). Lo lessi, il 460: «Poiché la sua vera natura è andata perduta, tutto diventa la sua natura; come, essendo perduto il vero bene, tutto diventa il suo vero bene». E poi gli altri, fino al 477. Il segnalibro era per caso a quel punto, o don Gaetano ve lo aveva messo per me? Non volli pensarci, nè andare avanti a leggere. Chiusi il libro e lo misi da parte. E cominciai a disegnare. Poiché era il disegoo da regalare a Scalambri, facevo un nudo femminile quanto più osceno e sgradevole mi era possibile: perché Scalambri, conoscendolo come mi pareva di conoscerlo, se ne disfacesse vendendolo; e dalla somma che ne avrebbe ricavato, sarebbero indubbiamente cresciuti il suo apprezzamento e la sua invidia nei miei riguardi. Ora il disegnare, una volta stabilito il tema o l’oggetto, è per me un fatto talmente automatico che la mano e gli occhi è come se mi si allontanassero e appartassero, andando per loro conto e alleggerendomi la mente come da un peso, da una scoria. Pensando a tutt’altro che al disegno, disegnando i miei pensieri si fanno più esatti e lucidi, insomma, meglio concacenati; e più nitida e alacre la memoria. E così, disegnando il nudo per Scalambri, sviluppai una ipotesi che mi era avvenuto di fare dopo il primo delitto; la sviluppai, voglio dire, come il cavaliere Carlo Augusto Dupin sviluppa le sue nei racconti di Poe. Mentre la mano e gli occhi vagavano sul foglio, la mia mente vagava sul terreno davanti all’albergo, un semicerchio di un centinaio di metri profondo verso il bosco. Ne vedevo ogni pietra, ogni anfratto, ogni albero: come fossi affacciato alla finestra della mia camera, e di pieno giorno. Ma non voglio dire di più. Finii di disegnare quando mi parve di aver risolto il problema. Molto lavorato, carico e con qualche cincischiatura, il disegno; ma la soluzione del problema netta e quasi ovvia: molto simile a quella della Lettera rubata di Poe. E rimandando all’indomani la verifica, mi misi a letto e quasi subito mi addormentai. L’indomani, la prima persona che incontrai fu il commissario. Stava nell’atrio, in poltrona, a sfogliare i giornali. Con allusiva ironia subito mi comunicò «Abbiamo il filo». Mi invitò con un gesto a sedergli accanto. «E qual è, questo filo?». Leonardo Sciascia TODO MODO - 69 - «Quello che il procuratore cercava. Ma che dico, il filo? Migliaia di fili, e tutti ammatassati... Un mazzo così» ne segnò il volume da terra al suo ginocchio «di fotocopie di assegni. Tutti firmati da Michelozzi, sui fondi speciali o segreti di cui disponeva... Il procuratore ci impazzirà». E soavemente degustò l’idea che Scalambri ci impazzisse. «Ma ci sono assegni a favore di qualcuno che si trova qui?». «Di qualcuno? Di tutti. Non ce n’è uno che non abbia avuto la sua parte». «E dunque?». «E dunque da tutti questi assegni possono uscire centinaia di piccoli processi per malversazione, concussione, peculato; o un solo processone. Ma un processo per omicidio, mai». «Lo credo anch’io». «Il procuratore, invece, è convinto che la chiave del primo delitto, e quindi anche quella del secondo, la troverà tra quegli assegni... Non che il suo ragionamento sia del tutto campato in aria: solo che la difficoltà di farne verifica è tale, che è come se lo fosse... Lui ragiona così: Michelozzi dava a costoro del denaro non perché se ne andassero a donne o corressero a depositarlo in Svizzera; glielo dava per il Partito, per le correnti nel Partito, per le sezioni, le clientele, i singoli clienti; qualcuno invece se lo sarà tenuto: tutto, e non una quota più o meno larga, com’è d’uso; Michelozzi, suspenando o sapendo, l’avrà minacciato…». «Minacciato di che? Denunciarlo non potcva». «Minacciato di non dargliene più». «Ne avrcbbe trovato altrove». «È quello che dico anch’io... Tuttavia, qualcosa di attendibile nell’ipotesi dcl procuratore c’è; ma se la deviamo su un terresso diverso... Io dico: e se Michelozzi si fosse accorto che il denaro che passava ad uno di costoro serviva a finanziare il disordine, l’assassinio? Oppurc: e sc lo avessc finanziato consapevolmente e ora avesse voluto ritrarsene, abbandonare la partita diventata troppo pericolosa?». «L’ipotesi si fa più sensata, così; ma fermandoci alla prima domanda, ché dicono Michelozzi amasse il prossimo suo come se stesso». «Lei, mi scusi, non sa di che cosa è capacc la gente casa e chiesa, la gente col libro da messa in mano, la gente che dice di amarc il prossimo suo come se stessa... Tra due mesi, e non mi pare l’ora, avrò compiuto trent’anni di servizio nella polizia: ebbene, i delitti più efferati in cui mi sono imbattuto, i più razionali, i più difficili da scoprire, come anche i più folli e i più facili, sono stati quelli commessi da uomini e donne che avevano i ginocchi così» modellò come una grossa pagnotta «per lo stare dietro le balaustrate del coro e la grata del confessionale... E alcuni, si capisce, per sesso; ma la maggior parte, mi creda, per denaro; e quasi sempre per denaro da Leonardo Sciascia TODO MODO - 70 - ereditare dal prossimo più prossimo». Si alzò «Vado a vedere che filo è riuscito a tirare dalla matassa, il procuratore... Vuole che le lasci i giornali?». «No, grazie: vado a passeggiare un po’ nel bosco». E ci andai, ma per fare la ricerca che mi ero, è il caso di dire, disegnata la scra avanti. Ci ritrovammo tutti nel refettorio, per la colazione. Don Gaetano non che fosse allegro, ché forse non lo era mai stato in vita sua, ma aveva un che dì divertito, come avesse preparato uno scherzo per qualcuno di noi, o per tutti noi, e aspettava che scattasse. Scalambri era stanchissimo, gli occhi arrossati; e tanta voglia di parlare non aveva. Al mattino, gli avevo mandato in camera il disegno. Me ne ringraziò seccamente: certo non gli era piaciuto. Il commissario se lo covava con uno sguardo tra beffardo e compassionevole, e frequentemente rivolgeva poi a me lo sguardo come a dire: lo guardi com’è sfinito, a sgomitolare quella matassa senza capo e senza fine. Il ministro era piuttosto nero: tra gli assegni di Michelozzi, seppi poi, Scalambri ne aveva trovato uno a lui intestato; e gli aveva chiesto spiegazione. Ancora più nero l’altro commensale, presidente della banca sulla quale Michelozzi spiccava gli assegni: e Scalambri se lo era tenuto a colloquio per un paio d’ore, non ottenendo altro che l’odio di cui il presidente lo fulminava. Dal ringraziamento che mi fece Scalambri per il disegno, don Gaetano prese avvio. «Che cosa rappresenta» domandò a Scalambri «il disegno che le ha regalato?». «Un nudo, un nudo di donna». «Ah» fece don Gaetano. Come a dire: e che altro? «Un brutto nudo» dissi, come a giustificarmi. «Ah». E stavolta conte a dire: va un po’ meglio. «Ma molto ben disegnato» disse, per pura cortesia, Scalambri. «Ma certamente: vuole che alla sua età, con la sua esperienza, col suo valore, il professore non disegni bene? Benissimo, deve disegnare: sempre, e qualunque cosa faccia» disse don Gaetano. E a me «Io, e mi pare di essermene già scusato, ho visto poche cose sue; e quasi sempre in riproduzioni. Ma dal poco che ho visto... E mi viene una curiosità: ha mai dipinto o disegnato qualcosa che avesse a che fare con la nostra religione? Un Cristo, una Madonna, un Santo; o, che so, una festa, una chiesa...?». «Una Maddalena, parecchi anni fa». «Si capisce, una Maddalena... E come l’ha fatta?». Leonardo Sciascia TODO MODO - 71 - «L’ho fatta…». «No, aspetti; mi lasci indovinare... L’ha fatta come una prostituta in ritiro: vecchia, sformata, pietosamente e grottestamente imbellettata». «Ha indovinato». Scontrosamente. «Ne ho piacere, vuol dire che qualcosa di lei ho capito». E come se, avendo io risposto esattamente alla prima domanda, potesse andar oltre nell’esame «E non la tenterebbe l’idea di dipingere qui, per noi, per la nostra cappella, un Cristo? E noti che sto usando il verbo tentare». «Non mi tenta» dissi, duramente. Ma poiché vidi che don Gaetano della mia durezza era soddisfatto, come di una reazione positiva, andai su altro registro. «Dopo Redon, dopo Rouault... No, non mi tenta». «Ha ragione» disse don Gaetano. Ma sapendo, credo, che il suo darmi ragione mi avrebbe irritato. «Dopo Redon, dopo Rouault... Per non andare più indietro nel tempo: a Grünewald, a Giovanni Bellini, ad Antonello... Per me, una delle più inquietanti immagini di Cristo, è quella di Antonello, che si trova oggi, mi pare, al museo di Piacenza: quella maschera di ottusa sofferenza... Terribile... Ma nei tempi nostri, sì, senz’altro: Redon e Rouault... Altissimo, il Miserere di Rouault, di una passione che non chiude ma annuncia... Voglio dire: qualcuno potrebbe anche credere che con Rouault si chiuda la storia della passione diciamo cristologica dell’umanità, che ne sia l’ultima voce, l’ultimo anelito; e invece nuovamente si apre e si invera... Ma Redon... Ecco, Redon non è meno inquietante di Antonello, ma in altro senso... E parlo, si capisce, del Cristo che è nella terza serie della sua Tentation... Si ha l’impressione, fortissima, sconvolgente, che solo attraverso una rivelazione, un’apparizione, Redon abbia potuto disegnare il volto di Cristo come lo ha disegnato; che Cristo, cioè, abbia veramente avuto quel volto e che solo per una volta, a distanza di secoli, l’abbia svelato a Redon... Non agli apostoli, non agli evangelisti: ché evidentemente volle che del suo volto si smemorassero. A Redon... Le mani, a santa Teresa di Ávila; il volto, a Redon. Perché?... Lo domando a lei perché certo sa di Redon più di quello che so io». «Non so... Forse perché Redon aveva sempre rifiutato di guardare quel che era nudo». «Quel che era nudo?». «Diceva: “Je ne regarde jamais ce qui est nu”». «Perché andava sempre al di là del nudo, come i raggi x». Stranamente, avevo sempre avuto una sensazione simile a quella che don Gaetano aveva precisato, di fronte al Cristo di Redon. Ma dissi «Quello che lei dice non ha fondamento che in un fatto abbastanza insignificante, che forse s’appartiene più alla Leonardo Sciascia TODO MODO - 72 - vanità che alla mistica ispirazione: Redon ha voluto, semplicemente, fare un Cristo diverso». «Ma tanto diverso, e di una tale intensità... Comunque: lei non vuole o non sente di provarsi a darci una sua immagine di Cristo?». «Non sento ma voglio». «Ah, vuole... Benissimo. Vedremo». E come solo allora accorgendosi che gli altri si annoiavano, cambiò discorso. «La vedo affaticata, signor procuratore». «Eh sì» sospirò Scalambri. «E lei riposato, signor commissario». Malignamente. «Già» commentò acre Scalambri. «Non posso trarne il giudizio che lei» a Scalambri «fa con pena quello che il commissario fa con gioia: ma il commissario…». «Il commissario» disse il commissario «tra due mesi se ne va: ed ecco spiegata la sua gioia». «Se ne va?». «Dalla polizia. In pensinne. In campagna». «Beato lei» si complimentò il ministro. «Perché va via dalla polizia?» domandò al ministro, sorridendo ironicamente, don Gaetano. «Ma no, non mi permetterei: io ho tanto rispetto, tanta ammirazione, per la nostra polizia... Perché se ne va in campagna». «È una beatitudine facilmente guadagnabile: e specialmente per lei, per il signor presidente…». Il presidente ebbe un piccolo sussulto. «Il commissario è costretto ad aspettare altri due mesi, voi invece potete farlo subito». Il ministro e il presidente si fecero più cupi di quanto già non fossero. Credo pensassero che don Gaetano volesse alludere agli assegni che Scalambri aveva in mano e che li avrebbero, forse, costretti alle dimissioni. E forse don Gaetano voleva proprio alludere. Ad una voce dissero «Magari!». «È difficile uscirne? Vi trattengono a forza?» domandò, fingendo candore e stupore, don Gaetano. «Oh Dio, proprio a forza no» rispose il ministro. «Certo, però, uscirne non è facile». Il presidente ripetutamente annuì. «Specialmente ora» disse ambiguamente don Gaetano. Voleva dire vi cacceranno via subito oppure non ve ne andrete prima di aver reso conto di quel che facevate con Michelozzi? Fatto sta che alludeva. E si divertiva. Leonardo Sciascia TODO MODO - 73 - Il ministro trovò la forza di dare altro senso alle parole di don Gaetano. «Certo, specialmente ora: mentre le cose vanno male, andarsene sarebbe una fuga, una defezione». «Un tradimento» precisò ironicamente don Gaetano. «E per audar male, non c’è che dire, vanno proprio male» intervenne il commissario. «Non esageriamo» disse il ministro. «Non esageriamo» gli fece eco il presidente. «Non esageriamo» suggellò Scalambri. «Insomma: vanno o non vanno male?» domandò don Gaetano a tutti e tre. «Secondo i punti di vista» rispose il ministro. «Dal punto di vista» disse il commissario «di chi tiene le mani nelle proprie tasche, vanno malissimo». Si fece silenzio: come tra gente educata che scopre nella compagnia un maleducato. Poi il presidente disse «Il problema non è quello di tenere le mani nelle proprie tasche o nelle altrui; il problema è...». «... Che si possa continuare a fare l’esercizio di destrezza di cavare ancora qualcosa dalle tasche altrui» completai. «E cioè, di trovarci ancora qualcosa». «Lo Stato non è un borsaiuolo» disse con indignazione il ministro. «Certo, non è un borsaiuolo» confermò, con più moderata indignazione, il presidente. «Ma signori» disse don Gaetano al ministro e al presidente «spero non mi darete il dolore di dirmi che lo Stato c’è ancora... Alla mia età, e con tutta la fiducia che ho avuto in voi, sarebbe una rivelazione insopportabile. Stavo così tranquillo che non ci fosse più…». Il ministro e il presidente istantaneamente, d’un rapido sguardo che si scambiarono, decisero di prenderla come una facezia. Risero. Ridevano ancora quando ci alzammo da tavola. Rientrai in albergo a pomeriggio inoltrato; e andai direttamente nella mia camera, ché mi era venuta un’idea per il Cristo che avevo promesso a don Gaetano. Non promesso, precisamente; ma ormai la potevo considerare una promessa da mantenere. Disegnai per un paio d’ore. La mia mano era appena un po’ più nervosa del solito; ma non un solo tratto che sul foglio mi si spezzasse o impennasse, anche impercettibilmente. Soltanto una inusitata celerità e quasi ritmica, come dettata da un Leonardo Sciascia TODO MODO - 74 - lontano e segreto tempo musicale. Un tempo che non voleva diventare tema, frase; ma si intrideva e appagava nei segni che scorrevano sul foglio, nei pensieri e nelle immagini che anche più febbrilmente scorrevano nella mente. E i pensieri e le immagini non erano, come solitamente mi accadeva nel disegnare, di cose che non avevano niente ache fare con quel che venivo tracciando e crudamente ombreggiando sul foglio (da non intendere, l’ombreggiare, come nelle scuole di disegno, se ancora ci sono, si intende). Sentii ad un certo punto, nell’albergo fino allora silenzioso, sorgere e levarsi, come una spirale che dall’atrio salisse da un piano all’altro girando nei corridoi, un brusio concitato, uno sbattere di porte, uno scalpiccio. Ma non mi mossi se non quando il rumore cominciò a defluire verso l’atrio e a coagularsi laggiù: un rombo ininterrotto e crescente. L’atrio era fitto come all’indomani del primo delitto. Vociando istericamente tutti, l’un l’altro, si chiedevano «Quando? Dove? Come?». Qualcuno aveva trovato morto don Gaetano: ma non si sapeva se nella camera o nel suo studio o nella cappella o nel bosco. Finalmente da fuori uno gridò «Nel bosco, al vecchio mulino» e la mandria uscì nello spiazzale, si sparpagliò, di nuovo si serrò, ad imbuto, verso il sentiero che portava al vecchio mulino. Andai anch’io: ultimo, a chiudere quella fila piuttosto grottesca di uomini di mezza età che quasi correvano, ansando e incespicando, per il sentiero. E sentivo quelli davanti a me chiedersi a respiro mozzo se don Gaetano era stato ucciso o era morto di morte naturale. Come se la morte, e don Gaetano avrebbe dovuto insegnarglielo, non fosse sempre e comunque naturale. Era stato ucciso. Al vecchio mulino, che era poi quello di cui restava la mola di pietra. E la mola, da cui era scivolato, gli faceva ora da spalliera. Non mi fece forte impressione, rivederlo morto. La morte, che anche agli imbecilli conferisce solennità, a don Gaetano un po’ ne aveva sottratta. Era scomposto e come disarticolato. Le gambe, aperte quasi a squadra, tendevano l’abito talare; che nello scivolare era andato su, scoprendo le calze bianche, di lana grossa. E quelle calze calamitavano gli sguardi, e perché facevano spicco tra il nero delle scarpe e il nero della veste, e perché erano da pieno inverno e si era in piena estate. Distogliendosi dalle calze, l’occhio, almeno il mio, si fermava poi agli occhiali che, dal cordoncino attaccato al petto, erano scivolati su una radice e vi stavano in curiosa angolazione rispetto a un raggio che, di tra le foglie, vi cadeva. Sembrava il particolare di un quadro di caravaggesco minore. E dico minore perché tutto, in don Gaetano morto e intorno a lui, era minore; voglio dire sminuito, ridotto, sommesso: rispetto a come era da vivo. A poca distanza dalla sua mano sinistra, c’era una pistola: corta, a tamburo. Tanto vicina alla mano che qualcuno, vicino a me, domandò se si era suicidato. Leonardo Sciascia TODO MODO - 75 - Risposi «Ma le pare possibile?». «I nervi li abbiamo tutti» disse l’altro, piccato. E il metterlo alla pari di tutti, da parte di un suo devoto, mi parve confermasse la mia impressione che la morte, almeno in quel momento, in quella scena, aveva degradato don Gaetano. Ci eravamo tutti fermati, in semicerchio, a una diecina di passi dal corpo di don Gaetano e da Scalambri e il commissario che gli stavano ai lati e lo scrutavano come se ne aspettassero un segno di vita, un risveglio. Attraversai quello spazio e andai vicino a Scalambri. Con un ghigno di soddisfatta sconfitta, come se una sua previsione si fosse realizzata, ma a suo danno, ad accrescergli responsabilità e fatica, mi disse «Omnia bona trina». Il suo latino. E subito lo assalì la preoccupazione che la frase potesse suonare di vera e propria soddisfazione, senza quel compianto di sé da cui era venuta fuori. «Voglio dire: siamo in un bel guaio». Ma aveva ancora fatto una zeppa, con quel bel. «Un guaio grosso, un guaio tremendo». E riprese a scrutare il morto. «Quello che mi intriga...» disse il commissario, come parlando tra sé e fissamente assorto sulla pistola. E lasciò sospesa la frase. «Che cosa la intriga?» domandò Scalambri. Al limite della sopportazione; come dicesse che di quel che pensava il commissario, delle sue ipotesi, delle sue deduzioni, dei suoi dubbi, non aiuto ne aveva ma intralcio. «La pistola» disse il commissario. «Che cosa c’è, nella pistola?». Con lo stesso tono di insopportazione. «Nella pistola, niente. Nel fatto che l’abbiamo trovata, che ce l’abbia fatta trovare, qualcosa. Qualcosa che dà a pensare». «E le pare il caso di dirlo coram populo?». «Infatti, non lo avevo detto; ho risposto poi alla sua domanda». Invece di ribattere, chè non poteva, Scalambri prese una decisione che sembrò improvrisa, e forse non lo era. Rivolgendosi a quello che nel suo latino aveva chiamato popolo, disse «Vi prego, signori, di tornare in albergo. E preparatevi a lasciarlo entro stasera». Sorse un brusio di protesta. «È una misura che si impone: per la vostra sicurezza, per la mia responsabilità…». «Giusto» disse il ministro. «Forse bisognava pensarci un po’ prima». Scalambri non raccolse il rimprovero. Ma con più ferma e irata autorità ribadì «Entro stasera, l’albergo deve essere sgombrato; non deve restarci nemmeno il gatto». «Il gatto» disse padre Cilestri, staccandosi dagli altri e venendo verso Scalambri «non c’è, abbiamo usato sempre topicidi…». Non si capiva se volesse smontare Leonardo Sciascia TODO MODO - 76 - Scalambri o se era tanto dolorosamente confuso da prendere alla lettera l’espressione. «Ma io, gli altri sacerdoti che stanno con me…». «Tutti» disse Scalambri «tutti... Chiudo l’albergo, padre, chiudo e faccio mettere i sigilli». E addolcendosi «Vi prego, signori: andate a preparare. le valige.. Dobbiamo lavorare, qui». Se ne andarono, il ministro in testa. Di lavorare, lavorava soltanto il fotografo. Poi venne il medico. Poi vennero due con una barella di tela, vi adagiarono sopra don Gaetano, lo portarono via. Gli occhiali pendevano dalla barella, dondolavano al passo dei portatori. Li seguii fino al furgoncino, che era davanti all’albergo. Poi salii in camera, a prepararmi per la partenza. Le valige, avevo solo da chiuderle. Ebbi per un momento l’indecisione se portar via o lasciare il libro che don Gaetano mi aveva fatto arrivare la sera avanti. Lo lasciai, accanto al Cristo che avevo disegnato. Non era ancora buio, ma l’albergo tutto illuminato dava, nello spiazzale, il senso che appunto tutta quella luce chiamasse la notte ad ammatassarsi intorno a noi. Qualche automobile già partiva. Scalambri e il commissario assistevano all’esodo. Mi avvicinai. «Hai fatto presto» constatò Scalambri guardandomi le valige. «Non vede l’ora, è naturale, di lasciare questa bolgia» disse il commissario. «Se si continuava a star tutti qui» disse Scalambri «sarebbe finita come in quel romanzo di Agatha Christie: tutti ammazzati, uno appresso all’altro. E avremmo dovuto resuscitarne uno, per trovare il colpevole». «Non si troverà, il colpevole; non si troverà mai» disse malinconicamente il commissario. «Ma la pistola?» domandai. «Lei mi pare avesse fatto, sulla pistola, una riflessione... E credo coincida con la mia». «Qual è, la tua riflessione?» domandò Scalambri con condiscendenza. «Semplicemente questa: perché, scomparsa al primo delitto, ve la fanno ritrovare accanto al cadavere di don Gaetano?». «Esatto» disse il commissario. «Proprio quello che io ho pensato». «E se» dissi «ad uccidere don Gaetano fosse stato un altro, uno che sapeva dove stava nascosta la pistola o che per caso l’avesse trovata?». Leonardo Sciascia TODO MODO - 77 - «Oh Dio» disse Scalambri «ma perché dobbiamo complicare le cose, che sono già abbastanza complicate?... La pistola era nascosta dove colui che ha sparato a Michelozzi l’aveva nascosta, e ben nascosta; nessun altro poteva saperlo né, per caso o per ragionamento, scoprirla. Se poi il commissario la pensa come te, e ammette la possibilità che un altro potesse trovarla, dovrebbe riconoscere la propria incapacità e senza perdere un minuto dimettersi: ché era compito suo quello di trovarla, e per due giorni l’ha cercata con perquisizioni nelle camere, nei bagagli, guardando ogni ripostiglio e scrutando palmo a palmo il terreno». E puntando l’indice sul commissario «Lei crede che qualche altro abbia trovato la pistola, che ad uccidere don Gaetano non sia stata la stessa persona che ha ucciso Michelozzi?». «Non credo niente, io... Soltanto, non mi spiego la ragione per cui la pistola sia stata lasciata lì, accanto a don Gaetano». «Perché non serviva più: può essere una spiegazione, no?». «Può essere». disse il commissario. Ma per tagliar corto. «E se può essere, perché dobbiamo cercarne altre più complicate e che complicano?». E rivolgendosi a me «Pensa: nell’ora in cui don Gaetano è stato fatto fuori, quasi tutti erano nelle loro camere; e il quasi esclude soltanto me, te, il commissario, gli agenti, il cuoco, il personale di servizio; e don Gaetano. Comunque, tutti i sospettabili erano dentro, ciascuno nella propria camera. Così almeno mi assicurano e giurano... L’agente che era di guardia tra la scala e l’ascensore, dice che nessuno è uscito; né ha visto rientrare qualcuno che non aveva visto uscire. La stessa cosa dice quello che era di guardia alla scala di servizio. E il commissario, che se ne stava qui, a fare la siesta su una sdraio, conferma: nessuno è uscito, nessuno è rientrato... E allora?». Non ebbe da noi risposta, e se la diede da sé: con soddisfazione. «E allora io trovo una spiegazione abbastanza semplice, abbastanza sensata: uno dei tre, due dei tre, tutti e tre, si sono allontanati per un momento o, più facilmente, si sono addormentati». «Non io» disse il commissario. «Va bene: lei non si è né allontanato né addormentato. Va bene. E nemmeno l’agente che stava tra l’ascensore e la scala. Ma quello che era di guardia alla scala di servizio... Ecco, lei dov’era precisamente?». «Lì» indicò il commissario. «E da lì lei può giurare di aver costantemente sorvegliato la porta principale e quella di servizio? E tanto più che lei non stava lì per sorvegliare, ma per fare la siesta, per riposare...». «Non posso giurarlo». Leonardo Sciascia TODO MODO - 78 - «Ecco, vede: l’agente deve essersi addormentato e lei poteva star guardando altrove, quando l’assassino è sgattaiolato fuori. Non c’è altra spiegazione, se vogliamo restare sul terreno della realtà, del buon senso. Se poi vogliamo uscirne, possiamo arrivare dove vogliamo: anche a pensare che uno di noi tre... Ecco: lei dire di essere rimasto qui, a fare la siesta; ma è lei che lo dire... E tu» a me «tu dici di essere andato... Dov’è che te ne sei andato?». «A uccidere don Gaetano» dissi. «Lo vedi dove si arriva, quando si lascia la strada del buon senso?» disse trionfalmente Scalambri. «Si arriva che tu, io, il commissario diventiamo sospettabili quanto costoro, e anche più: e senza che ci si possa attribuire una ragione, un movente... Io lo dico sempre, caro commissario, sempre: il movente, bisogna trovare, il movente…». Rimasero entrambi silenziosi per qualche lempo. Non pioveva più; un raggio sbucava di tra le nubi. La vettura, sabbalzando lentamente, rientrava in Roma. «In questo caso so quel che mi resta a fare» riprese Antimo con la sua voce più decisa. «Li metto in piazza». Giulio sussultò. «Amico mio, lei mi spaventa. Lei si farà scomunicare certamente». «Da chi? Se è un falso Papa, chi se ne frega?». «Ed io che speravo di aiutarla a gustare in questo segreto qualche virtù consolatrice» riprese Giulio costernato. «Scherza!?... E chi può dirmi se Fleurissoire avvivando in Paradiso non scoprirà che anche il suo buon Dio non è più quello vero?». «Vediama un po’, Antimo caro, lei divaga. Come se ce ne potessero essere due! come se ce ne potesse essere un altro». «No... però lei può parlarne tranquillamente perché non ha abbandonato niente per lui e perché tutto, vero o falso che sia, torna a suo profitto... Ah! basta!... Ho bisogno di prendere un po’ d’aria». Si chinò fuori del finestrino, toccò con la punta del bastone la spalla del vetturino e fece fermare la carrozza. Giulio si preparava a scendere con lui. «No, mi lasci andare. Ne so abbastanza per scegliere una linea di condotta. Tenga il resto per un romanzo. Per quel che mi riguarda, questa sera stessa scrivo al Gran Maestro, e domani ricomincio le mie cronache scientifiche sulla Dépêche. Riderà bene chi riderà l’ultimo». Leonardo Sciascia TODO MODO - 79 - «Come? zoppica ?» disse Giulio sorpreso di vederlo nuovamente claudicante. «Sì, da qualche giorno i miei dolori mi hanno ripreso». «Ah! me la dica tutta!» disse Giulio che, senza guardarlo allontanarsi, si rincantucciò nella carrozza. (Gide, I sotterranei del Vaticano) - FINE -

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